Il martedì sera ha il volto beffardo del joker, non di quello di Gotham City, ma dell’uomo in calzamaglia che si aggira fra le carte da ramino, delizia per chi lo possiede durante una partita, croce per gli altri. Si tratta di una serata in cui di solito la movida imperante è quella scandita da “Montenegri” e bestemmie intorno ai tavoli da gioco dei circolini; decido così di seguire uno di questi anziani in fuga dalla vita coniugale, diretto al circolo Curiel, speranzoso di vincere un torneo e il relativo prosciuttino in palio. Non sa che là dove c’erano tavoli verdi, ora c’è un palco minaccioso sul quale domina un grande teschio, logo dei Demerit.
Cosa ci fa una delle più famose punk rock band cinesi nel cuore della Chinatown pratese? Fa il cavallo di Troia, assemblato da Santa Valvola Records con la collaborazione di Radio Italia Cina, AUT e l’associazione Tramediquartiere, affinché italiani e cinesi possano ritrovarsi insieme dentro a una sala, con lo scopo comune di godersi un concerto, e magari capire che più si è meglio è, alla faccia dei ghetti culturali. Un esperimento dal sapore storico, nonché dalle curiose incognite, fra le quali quella della partecipazione da parte dei cinesi. Giungendo sul posto, l’impressione è che proprio nessuno abbia voluto mancare questo appuntamento, incontro infatti mille facce conosciute, provenienti da ambienti diversi, che mai avevo visto partecipare alla stessa serata. Il brulichio di persone fa presagire un gran successo di pubblico, ma dove sono quelli con gli occhi a mandorla?
Vedendo la sala sgombra, alcuni di loro hanno preso delle sedie e le hanno poste di fronte al palco, per godersi lo show in tutta comodità, ignari che proprio lì a breve si scatenerà l’inferno. Un simpatico corto circuito, che però fa pensare: il tutto risulterà forse come se un’associazione italo-americana avesse portato al matrimonio della figlia di Don Vito Corleone, invece di un cantante neomelodico, una band brutal death italiana? Lo stile tamarro che regna a Chinatown è arcinoto, come testimonia il negozio “YOLO” appena di fronte, ma in fin dei conti cosa meglio del punk può comunicare il bisogno di libertà dalle convenzioni e lo scardinamento delle barriere sociali, sui quali gli organizzatori vogliono porre l’accento?
I Quiet Pig salutano in cinese dal palco, di fronte alla sala già strapiena sia di italiani che di cinesi, nonché di italiani con gli occhi a mandorla. La musica della band locale si è fatta apprezzare in zona già in molte occasioni, e il loro concerto stasera si trasforma nel momento ideale per guardarsi intorno e tentare di inquadrare le insolite sensazioni che aleggiano nell’aria: nella sala riflettono volti cinesi illuminati dai display dei cellulari, tutti sembrano un po’ distratti e straniti, come la ragazza che ancora ostinatamente tiene gli auricolari, in pieno stile sino-pratese. Ci sono anche signorotte e bambini che si muovono fra l’olezzo di marijuana diffuso un po’ ovunque, o ragazze veramente troppo in tiro per un concerto punk, che contribuiscono però alla maggiore consapevolezza di alcuni riguardo all’opportunità di avere una così nutrita sezione “asian” in città. Mentre il garage punk dei Quiet Pig, fatto di basso, batteria e organo, scorre energico, originale e un po’ ironico, mi rendo conto che il vero protagonista, stasera più che mai, è il pubblico, intento a studiarsi come fosse esso stesso un capitolo di storia contemporanea.
L’avvicinarsi del momento topico della serata fa aumentare la tensione positiva che si respira, la massa diventa folla, finché i Demerit si palesano. Magicamente spuntano ragazzi cinesi con t-shirt dei Toxic Holocaust e simili, oltre a un drappello di groupie. Il palco è come preso d’assedio da ogni lato, il punk rock spalanca le porte all’enorme quantità di energia potenziale stipata nella sala. Crowd surfing, stage diving, addirittura un wall of death durante una canzone, e tutto ciò sta succedendo davvero un martedì a Chinatown, fra l’incredulità di molti. È un vero concerto di alto livello, che riporta la mia attenzione sul potere della musica alternativa, soprattutto in una situazione come questa, dove genuinamente la forma cede il passo al significato.
L’aria adesso è satura di sudore in salsa di soia, frutto di cene appena trascorse nel ristorante accanto, Ravioli Liù, che da anni mette a tavola insieme italiani e cinesi, fra glutammato, arredi trash e mitici liquori al pene di cervo. Fra un pezzo e un altro, il cantante intona un inno che esalta tutti i cinesi. Sarà l’inno nazionale cinese? “Boh”, mi dicono, poi ancora lui si spinge in un abbozzo di ‘Bandiera Rossa’ e ‘Bella Ciao’, che accendono un’orgia in stile Casa del Popolo di Vergaio negli anni ‘70. “Occhio che a Pechino i comunisti ti danno la caccia!”, gli dice qualcuno ben informato. Dopo aver fatto esaltare prima i cinesi e poi gli italiani, lo stesso frontman dei Demerit decide di far risuonare l’intera sala contemporaneamente, quando con due semplici parole (di cui una è “dio”), unisce tutti in un boato, risolvendo così, una volta per tutte, il nodo dell’integrazione culturale.
Il clima è surreale. Ci sono cinesi che non capiscono il punk, italiani professionisti della scena hardcore locale, cinesi che sanno tutte le parole delle canzoni, italiani che stanno subendo il concerto pur di supportare la causa politica, e nessuno che molla. Lo show supera abbondantemente l’ora, quando giunge al termine, lasciando spazio alle chiacchiere di chi si rende conto di aver partecipato ad un evento che rimarrà negli annali. John Carpenter e Kurt Russell ci avevano avvertiti, ma adesso sappiamo davvero cosa può succede a Chinatown, e che lo spirito vincente di zone ben più disagiate e famose nel mondo, outsider dei decenni passati, potrebbero rivivere oggi, in piccolo, in questa realtà certamente problematica, ma con terreni vitali da esplorare. Per una sera lasciamo volentieri ai fasti e alla stagnazione la Firenze dei turisti, la Pistoia Capitale della Cultura, o la Prato degli eventi più “istituzionali”, dicendoci che qui è successo qualcosa dall’importante valore socio-culturale (pur fra mille espressioni becere), e che il punk è arrivato dove un museo non riesce. La politica pensi alle cose dei grandi, che a divertirci tutti insieme ci pensiamo noi.
La speranza per il futuro è di incontrare i ragazzi cinesi anche fuori dal ghetto, la paura invece è già stata scongiurata, perché l’evento poteva risultare troppo autoreferenziale per una certa intellighenzia pratese, invece grazie all’impegno e alla sensibilità delle varie parti in causa tutto è stato perfetto, come testimonia anche la corsa in atto per staccare la locandina del concerto, da portare a casa come ricordo. Adesso c’è chi urla beato “La mia chinatown è più grossa della tua”, anche perché di birre ne sono state vendute troppe, ma io ora non posso fare a meno di pensare al vecchietto un po’ incarognito di inizio serata. Che fine avrà fatto? Gli sarà bruciato di certo lasciare spazio a questo casino. Poi vedo una carta da gioco in terra, la raccolgo, e scopro che è un joker.