Sono partiti alle 10 di domenica 3 aprile la delegazione che accompagnerà al campo profughi Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, il carico di aiuti di prima necessità raccolti a Prato e nella Piana nelle ultime settimane, frutto dell’appello lanciato da Arci a metà marzo.
L’autoarticolato con i beni raccolti dall’Arci è partito il primo aprile mentre la delegazione (nella foto accanto ndr) che lo seguirà comprende Paola Donatucci di Arci, Umberto Colaone e Massimo Illiano della Croce Rossa, il videomaker Luca Hosseini, il fotografo Alessio Bedendi e la nostra Stella Spinelli, che ha coordinato tutta l’operazione di raccolta e di spedizione e che nei prossimi giorni, su questa pagina, racconterà il viaggio e la distribuzione dei materiali da parte della Croce Rossa nel campo di Idomeni, dove circa 14mila persone aspettano di sapere se potranno continuare il proprio viaggio verso il resto d’Europa.
Il viaggio della delegazione pratese passerà per Ancona, città dalla quale s’imbarcherà alla volta di Igoumenitsa (Greci) per poi arrivare al campo di Idomeni via Salonicco.
Primo giorno
Alle 9,45 attracchiamo a Igoumenitsa, destinazione: Salonicco. Il tir carico della merce donata dai nostri concittadini e partito da Prato giovedì ci ha preceduti. Stiamo andando a incontrarlo a Salonicco, nel magazzino della Croce Rossa greca. Il sole splende e fa caldo, magari asciugherà quantomeno il fango in cui sono costretti a vivere le persone bloccate a Idomeni, al confine fra Grecia e Macedonia dove andremo nel pomeriggio.
L’arrivo a Idomeni
Alle 15 arriviamo al magazzino logistico della Croce Rossa Greca a Salonicco con un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. Le delegate crocerossine non ci hanno aspettato quindi ci limitiamo a controllare i nostri pancali che il tir ha portato a destinazione tre ore prima. Ci sono tutti. Quindi chiamiamo le delegate croce rossa di Salonicco e fissiamo per vederci il mattino seguente nel campo di Idomeni che nel frattempo però decidiamo di raggiungere da soli.
Dopo 45 minuti di autostrada primo stop: un’area di servizio è completamente occupata da tende di ogni colore e dimensione. Sono quasi tutti curdi siriani che inscenano canti e balli per chiedere aiuto. “Riaprite i confini”. “Aiutate i nostri bambini”. “Salvateci” sono solo alcune delle scritte che campeggiano nei ponti più disparati: magliette, tende, stracci appesi ovunque. Tentiamo di prendere accordi per distribuire loro le nostre scatole caricate sull’Iveco: due bancali di underwear, zaini, prodotti per l’igiene intima. Ma gli operatori ci suggeriscono di proseguire: ci sono accampamenti messi peggio ed è meglio tentare di dare le cose a loro.
Quindi continuiamo verso Neo Kabala, un accampamento nato da poco dentro un’area militare presidiata, ma i soldati non ci lasciano entrare: non abbiamo i permessi del governo. Niente da fare, non ci rimane che virare su Idomeni. La strada per Idomeni, poco oltre Neo Kabala è però bloccata. Siamo già in zona confine e i profughi hanno deciso di inscenare un sit-in di protesta sull’autostrada principale che porta in Macedonia. La colonna di tir fermi è infinita.
Troviamo quindi un’altra via e passando fra i monti arriviamo dopo 40 minuti circa all’immenso e disperato campo profughi di Idomeni: un inferno con tanto si fumi sparsi che rendono l’aria irrespirabile. Per cucinare, per riscaldarsi queste migliaia di persone – dagli zero agli 80 anni – non hanno altra scelta che accendere fuochi.
È un brulicare di gente. Un caos di tende e tendoni, volontari e poliziotti, operatori umanitari e tanti troppi bambini e giovani. Nessuna parola può descrivere cosa sia questa immensa vergogna d’Europa dove ogni dignità è calpestata.
Oggi siamo qua. L’intera giornata la passeremo a osservare, capire (impossibile) e a raccogliere storie e testimonianze che tutti fanno a gara a rilasciare. Molto sono siriani in fuga dalla guerra straziati da questa Europa che “fece per viltà il Gran Rifiuto” e spaventati – a morte – di esser respinti di nuovo in Turchia. “Preferiamo morire qua. In Turchia mai più”.
Welcome to #Idomeni, Welcome in “Europe, the next hell after Middle East War”.
Secondo Giorno
La giornata di ieri (5 aprile) è iniziata presto al campo. Il sole cocente non ha lasciato scampo fin dalle prime ore e una luce spietata ha mostrato l’orrore in ogni sua dimensione. Tende e tende e tende lungo la ferrovia. E gente ammassata a perdita d’occhio. Ogni struttura, di qualsiasi genere, si è trasformata in rifugio: dai vagoni dei vecchi treni fermi in una stazione senza arrivi né partenze, ai casottini della polizia ferroviaria. Le persone brulicano e i bambini sono nugoli sorridenti e pieni di voglia di fare, conoscere, giocare. In loro nemmeno l’ombra della tristezza.
Vagando fra le viuzze improvvisate negli accampamenti, arriviamo al compound della Croce Rossa Greca dove una squadra di donne sta distribuendo alimenti, pannolini, prodotti per l’igiene intima e coperte. Sono organizzati ed efficienti e, più che altro, sanno gestire la folla assiepata che chiede senza sosta, bisognosa di tutto. Nei prossimi giorni, da quei banchi, verranno distribuite anche le cose raccolte da noi ed è una gran bella sensazione.
Umberto, Massimo e Paola si mettono ad aiutare, mentre con Alessio e Luca andiamo a parlare con la gente, a capire e osservare. D’improvviso un coro: “Open the border. Open the border”. Sono i bambini, dai 4 ai 12 anni, che armati di fiori si introducono lungo la linea ferroviaria superando il posto di blocco della polizia e si incamminano verso la cancellata di ferro messa da qualche mese a sbarrare il confine con la Macedonia. I fiori finiscono sopra il carrarmato macedone che svetta dietro l’inferriata con il cannone ad acqua puntato verso la Grecia.
Nel pomeriggio ci aspetta Ernesto Massimino Bellelli, ambasciatore italiano a Skopje. Due ore ci dividono dalla capitale della Macedonia. L’ambasciata è nel centro, a pochi passi dalla piazza principale dove svetta la statua di Alessandro Magno. Il nostro intento è prendere contatti anche con associazioni macedoni ed aiutare i profughi bloccati a Tabanovce. Introdurre merci qua non è però così semplice e soprattutto richiede tempo e trattative. Rinunciamo, per ora, ma non ci arrendiamo. Ci riproveremo di sicuro.
“I circa 10mila profughi adesso a Idomeni? Fino a metà novembre passavano addirittura in una sola giornata 10mila persone – ci dice senza filtri l’ambasciatore -. Adesso tutto è bloccato e l’unica soluzione plausibile sarebbe agire in Siria per far finire il conflitto. Che posso dire? Che la Germania ha un serio bisogno di immigrazione, quindi non è un serio problema per Berlino. Il problema è politico”.
Terzo giorno
Mercoledì (6 aprile ndr) lo abbiamo passato a Idomeni. Fino a notte fonda. L’intento era distribuire direttamente almeno un po’ della roba portata e la miglior cosa, se non passo dal canale Croce Rossa, è appoggiarsi a famiglie del campo che ormai sanno farsi rispettare. A noi la persona a cui affidarsi ci era stata indicata da Vittorio, un ragazzo volontario della Brianza, che incontrammo la prima sera a Idomeni.
La mattina scorre lenta e polverosa distribuendo kit alimentari e pannolini con la Croce Rossa greca. In questi campi è tutto uno stare in fila: per il bagno, per lavarsi, per mangiare. E ogni punto ha associazioni che tentano il possibile per rendere meno disumano il quotidiano. Le due arrivano in un batter d’occhio. Troppe cosa da fare, troppa gente con cui entrare in contatto, parlare, gesticolare, a cui sorridere. E poi i bambini. Impossibile passare inosservati: ti assalgono con un entusiasmo incontenibile e commuovente.
Chi vuole un bacio, chi ti getta le braccia, chi si arrampica per salirti in collo.
Disarmanti.
“12 000” ci racconta il responsabile della Crocerossa. “10000” ci spiega Francesco, un altro volontario italiano qui da due settimane. Impossibile tenere il conto reale. La cosa certa è che tutte queste persone, tutte, fino alla fine di novembre riuscivano a passare in un giorno.
Incontriamo siriani, tanti, ma anche iracheni e afgani, partiti mesi prima. Uno di loro, 43 anni, padre di 4 figli e con la moglie incinta, ci confessa di aver speso 20.000 euro per scappare dai talebani attraverso Iran, Turchia e Grecia. Solo per il tratto di mare ha speso duemila euro a testa.
E che dire della piccola nata 25 giorni fa? La giovane madre non ha latte e quello in polvere che gli operatori riescono a garantirle non le si confà e ha coliche continue. E poi con i biberon sciacquati alla meno peggio con l’acqua della bottiglia è già tanto che riesce a dormire qualche ora senza dolori. Il medico di Msf insiste nel dire che non ha niente di grave e che ci vuol pazienza, ma l’apprensione dei familiari e dei vicini di tenda è comprensibile.
E staccarsi da quella famiglia è un’impresa.
Ci trasciniamo per il campo cercando fino a raggiungere la barriera di lamiera, ferro e filo spinato, facendo lo slalom fra le tende lungo il binario della ferrovia. Per mano bambini scintillanti nei loro abiti lisi.
Ci ritroviamo occhi negli occhi con i militari al di là della barricata. E sono macedoni, certo, ma non solo. Da fine febbraio è scattata la Joint Operation Macedonia, un accordo fra l’Ue e i Balcani in base al quale tutti i paesi coinvolti nella chiusura delle frontiere stanno inviando uomini sul campo che perlustrano giorno e notte il perimetro, respingendo chiunque tenti di passare.
La nostra serata finisce nella notte fra gli accampamenti silenziosi, cercando di dare un po’ della nostra roba a bisognosi fra i bisognosi. Una goccia in un oceano di diritti calpestati e dignità negata.