Difficile dire in due parole chi o cosa fosse Frank Casaglieri. La sintesi non rende giustizia a un personaggio così complesso e così amato. Nella sua pagina facebook il regista Marco Limberti lo definisce: “costumista, scenografo, scrittore, poeta, attore, business man, artista. Playboy anche. Soprattutto.”
Tutto vero. Se si dovesse sintetizzare tutto in una parola, se ne dovrebbe però usare una con un significato per i più negativo ma che nel suo caso andrebbe accolta nell’accezione più pura e più sublime: trafficone.
Franco Casaglieri trafficava in arte, in cultura, in parole, in fatti. E gli riusciva molto bene. Alle definizioni di Marco ne aggiungerei un’altra: esteta. Amante del bello, in generale, nelle cose e nelle persone. Vi siete mai soffermati a guardare che scarpe indossava? Non erano mai banali, mai scontate, sempre qualcosa di speciale. E sapeva portarle, quelle scarpe lì. Mica è roba da tutti.
Casaglieri era un raccontatore di storie. Un affabulatore come ce ne sono pochi. Potevi stare ore ad ascoltarlo. Di come e quando lui, Benigni, Monni, Sannini e Buti partirono alla conquista della Roma degli anni Settanta, e tornarono vincitori. Lui raccontava spesso, ma si soffermava più a parlare degli amici che di se stesso. Ultimamente aveva anche preso a raccontarle su di un palco, quelle storie. Lo faceva per ricordare l’amico di sempre, Carlo Monni, cui aveva anche dedicato un piccolo libro, “Carlo Monni infinito e imperfetto”. Ma le storie della vita di Carlo finivano spesso per incrociare quelle della sua vita.
Come quella di quando rapì per una notte Tina Turner, e visto che c’era si portò via anche un paio di scarpe del marito. Ike Turner, che non era un tipino raccomandabile, si informò su chi fosse Frank Casaglieri e dove si trovasse, lo raggiunse, si riprese la moglie e gli diede anche un fracco di botte. E a Frank che prendeva le difese di Tina Turner contro l’aguzzino, replicò: “It’s not for her: it’s for the shoes.”
E’ solo una delle miriadi di storie che amava raccontare. Lui si era preso la briga di raccogliere, dopo la sua scomparsa, tutte le storie che raccontava Carlo Monni: chissà se qualcuno si prenderà la briga di raccogliere le sue.
Un ricordo è per forza qualcosa di incompleto, di parziale. A me piace ricordare la prima e l’ultima volta che l’ho visto. Due cose assolutamente marginali per la sua vita, ma che hanno reso più bella la mia. La prima volta che l’ho visto e conosciuto (era la metà degli anni Novanta) lui era il gestore di un piccolo spazio teatrale off sui tetti a ridosso del centro di Prato. Si chiamava “D’Altr’Onde”, e lì con una compagnia di ventenni studenti in lettere facemmo uno spettacolo di poesia performativa. Ci chiamavamo “Compagnia degli statici”, e lo spettacolo “Periferia dell’impero”. Lo spettacolo – a distanza di vent’anni posso dirlo – era piuttosto acerbo. Noi eravamo imbevuti di cultura e d’avanguardia, ma non avevamo nessuna padronanza delle leggi e delle dinamiche teatrali. Però iniziava con una cosa curiosa, una poesia assurda di Massimiliano Chiamenti che recitavamo e cantavamo a due voci, io e Massi. Il ritornello faceva “Berlingaccio, berlingaccio, frittelline e castagnaccio” e poi andava di citazioni letterarie e non, in una decina di lingue vive e morte.
Ecco, io per il Casaglieri per una decina d’anni buoni sono stato “Berlingaccio”. E fu quella sera che mi regalò una lezione di vita che ho tenuto per me per tutti gli anni a venire. Nel dirmi che probabilmente solo l’inizio di quello spettacolo era qualcosa di meritorio mi disse: “Perché vedi, cos’è il teatro? Tu gli pigli un’ora, tu gli dai un’emozione, e t’ha fatto pari…”. Una frase di una semplicità e di una profondità sconcertante. Il problema non è prendergli i soldi o prendergli un’ora, è dare quell’emozione. Se no sei sempre in debito.
L’ultima volta è stato poco tempo fa. Ancora la poesia di mezzo, la presentazione di un libro di un amico, organizzata e fortemente voluta da lui. Aperitivo post lettura, e lì come sempre l’affascinante affabulatore che tornava fuori. L’argomento era dei suoi preferiti: le donne e la poesia. Mi raccontò la storia di Cunegonda da Romano, secondo gli annali la donna più bella di tutto il medioevo, che preferiva alla compagnia dei nobili e dei potenti quella dei giullari e dei poeti. Pare che finanche Dante fosse andato a bussare alla sua porta per avere i suoi favori, e che si fosse rifugiata alla fine della sua esistenza presso i Conti Alberti in vallata. L’ho trovata una storia meravigliosa, tant’è che mi sono un po’ documentato, e ne è uscita fuori una canzone, cosa più unica che rara di questi tempi, proprio su quel personaggio che Casaglieri mi aveva presentato.
Gliel’avevo anche detto: lo sai che ho scritto una canzone suggerita da te, la prossima volta che ci vediamo te la faccio sentire. Purtroppo quella prossima volta lì non c’è stata. Comunque grazie, Frank.