Quando ero ancora alle scuole elementari il mio amico Davide P. e la sua famiglia (i P.) si trasferirono a Prato. Ragioni di lavoro, di affitto, non so nemmeno io cosa. Ora che ci penso loro non erano fiorentini, ma stavano a Firenze già da molti anni. Fatto sta che decisero di lasciare la città nella conca per trasferirsi negli spazi ampi della piana.
Lo andavo a trovare il sabato o la domenica, a volte per l’intero week end. Eravamo i figli unici di quella generazione di apri-pista di figli unici, ancora privi di supporti tecnologici a cui i genitori potessero sbolognarci.
La casa nuova di Davide era più grande e più bella di quella vecchia. C’erano ampi campi intorno e in fondo stava una strada ad alta percorrenza. Mi ricordo che giocavamo come giocavamo a Firenze, stessa merenda con il pane e Nutella, e ricordo infine che il padre di Davide prese una nuova abitudine: di tirare con l’arco.
La cosa divenne sempre più un’ossessione per lui, al punto che aveva addirittura dei bersagli che non erano i normali covoni con al centro dei cerchi concentrici, ma dei finti cervi che da lontano sembravano veri. Io più che interessato all’arco, che per me era inutilizzabile come per i Proci a casa di Ulisse, ero affascinato da quel cervo finto. Così Davide e la sua famiglia, a trasferirsi a Prato, ci avevano guadagnato di possedere un cervo, pensavo.
Possedere un cervo: quasi un ossimoro.