Dalla spiaggia al Toscana village
La mattina dopo il nostro risveglio al Rosary Convent, immersi nella calura umida, nel verde e nella pace e serenità indiana, che richiama l’attenzione verso il mondo e verso noi stessi, accorgendoci improvvisamente di poterci sentire vivi, contrariamente al mondo occidentale dove tutto è cementificato e dove tutto e tutti vivono nella complessità; parlando in senso lato cioè anche in senso umano e spirituale, ci prepariamo e andiamo a fare colazione.
Stamani ci attende un lavoro di grande importanza civile umana e morale all’interno di una manifestazione realizzata attraverso il nostro progetto “Cittadini del Mondo Passaggio in India 2015”. Qui a Fort Kochin, un quartiere di Cochin, città del Kerala, situata in fondo ad un lembo di terra e costeggiata dal mare Arabico, ci dirigiamo dopo un fantastico viaggio a bordo di un semplicissimo autobus senza vetri, verso il mare.
La spiaggia appare come una immensa discarica. Infatti un grande problema è lo smaltimento dei rifiuti. Con animo carico e doveroso ci mettiamo di buona lena a raccogliere i rifiuti con un gruppo di ragazzini e ragazzine facenti parte della Croce Rossa Indiana. Ne raccogliamo qualche quintale e sgomberiamo dallo sporco un bel tratto di spiaggia. Tutti pensiamo che la “malattia psichiatrica” si può e si deve curare con il “darsi da fare” ovvero impegnarsi, stare insieme e aiutarsi a vicenda perché prima di tutto una persona è un essere umano e non una malattia. Infatti al giorno d’oggi siamo abituati ad identificare la persona con la malattia, ma questo è un grave errore, uno stigma.
In India delle persone che incontri, ovunque, anche per strada, ti accorgi attraverso il loro sguardo della loro semplicità, della loro grande umanità, della loro grandezza d’animo. Al contrario di noi, loro accettano le persone per quello che sono, senza giudizio, senza porsi tanti problemi. Per esempio quando nel pomeriggio siamo andati al Toscana Village, ( un villaggio costruito dal Lion’s Toscana, in collaborazione con le suore domenicane , per dare una casa ad alcune famiglie che non l’avevano) dopo un generoso rituale di benvenuto, ci hanno dedicato tutti insieme un canto di benedizione divina, poi in seguito una alternanza di canti fra noi e loro, sfociando tutto poi in un ballo ritmato con abbracci caldi, sinceri e amichevoli strette di mano. La cosa più bella che poteva accadere dal nostro arrivo è stata che dal clima iniziale di disagio e di freddezza, si è passati ad un caloroso e caldo incontro d’amicizia tra noi e loro, ovvero fra persone quasi estranee e sconosciute.
Francesca Bartoletti
La ricchezza di una terra rossa…
Partiamo verso il nord. Il treno viaggia attraverso un paesaggio di palme da cocco e terra rossa. Viaggia a porte aperte: ci sporgiamo per vedere il treno in corsa, per sentire il vento. Scendiamo alla stazione di Tellicherry e raggiungiamo Kolayad. Al tramonto, con un cielo che si tinge di rosa arancio, scopriamo qualcosa del posto dove siamo.
Le coltivazioni di caucciù, con i tronchi degli alberi intagliati per far colare la gomma dentro la metà di un cocco appeso all’albero, il verde della vegetazione tropicale, le palme alte e dritte, una donna che lava il sari in un torrente, l’ospitalità della gente, che al nostro arrivo ci accoglie in casa, offrendoci tè e da mangiare.
Qui, in questo viaggio, in questa India, dove la povertà è molta, l’impressione in ogni occasione è che la gente non abbia nessun problema a offrire, nessun problema a dare, anche quando non ha molto. La generosità, l’accoglienza verso gli altri sono sentimenti di persone e non sono determinati da quanto uno ha. Anche la serenità più profonda , qui in India, sembra non essere influenzata da quello che si ha, anche quando si ha davvero poco.
L’incontro con il popolo degli Adivasi, gli antichi proprietari della terra, che lavoravano e vivevano di ciò che la terra poteva loro offrire, ci fa riflettere. Il loro villaggio, costituito da circa 35 famiglie, è ormai circondato dai terreni che il governo del Kerala ha venduto ad altri proprietari, non esistendo documenti attestanti l’antica proprietà degli Adivasi. Le loro case non sono più capanne costruite con tronche e foglie di palma, ma casette in cemento costruite sempre dal governo. La povertà è molta; una donna ci mostra come macina un certo tipo di foglia, che usano poi masticare per non sentire i morsi della fame.
Quando però chiedo se queste persone sono serene, mi viene risposto di sì. E lo si intravede dai loro volti, magri e invecchiati, ma ricchi nello sguardo di fascino e bellezza, di espressione. Gli uomini ora sono chiamati a lavorare la terra di altri, perché bravi lavoratori; fino a poco tempo fa non lavoravano. I bambini frequentano le scuole del paese. Il capo villaggio non è più stato nominato ormai da qualche anno. E’ chiaro come anche questo popolo si stia adeguando a ciò che ha intorno, a ciò che è oramai troppo vicino. A ciò che sembra ormai l’unico modo di vivere possibile e concesso.
E’ difficile capire se è quello che vogliono. Come per noi è difficile capire se il benessere che abbiamo nel nostro paese, tutte le nostre comodità, tutta la nostra ricchezza, tutte le cose che possediamo, ci stiano rendendo realmente felici. Qui in India, nello sguardo degli Adivasi, nel sorriso di un ospite del Settlement (manicomio comunale di Cochin), nell’accoglienza della gente che incontriamo, nei canti e nelle danze fatte insieme agli altri, nei lavori faticosi, ma gratificanti che facciamo, nelle emozioni che sentiamo, nell’armonia del nostro gruppo, in ognuno dei partecipanti al viaggio che qui dice “io sto bene”, troviamo per noi questa domanda.
Emilia Elmi
La prima puntata di Cittadini del Mondo 2015 è qui.