Dopo aver debuttato al 58 Festival dei 2Mondi di Spoleto la scorsa estate, dal 5 al 15 novembre al Teatro Metastasio va in scena lo spettacolo di Pier Paolo Pasolini “Porcile” con la regia di Valerio Binasco, una nuova produzione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, coprodotta con il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la collaborazione del Festival di Spoleto.
L’approccio di Binasco a Pasolini è emotivo e antiaccademico. Del testo non sposa la causa della stravaganza lessicale, della metafora filosofica, politica o poetica, dei simbolismi, della caricatura alla Grosz, con al centro di tutto il personaggio di Julian come esempio di eroe moderno, afasico, straniato e odiosamente saccente. La scelta, piuttosto, è quella di raccontare Porcile come una ‘storia’, senza concettualismi, attenuando e mettendo in secondo piano satira, metafora e stile e cercando ciò che di realistico e umanamente semplice Pasolini ha nascosto dentro alle sue scene, come se fosse una commedia quasi ‘normale’, con “qualcosa di molto naif e borghese come una trama”, resa da Binasco molto evidente, piena di profondità psicologica e, a tratti, anche commovente.
Uno spettacolo tenero, con personaggi disperati e smarriti da scovare sotto le abili maschere e i trucchi letterari in cui li ha costretti Pasolini, non più portavoci dell’autore e nemmeno tipi sociali, ma semplicemente personaggi, cioè persone.
Non superficialità negazionista, dunque, ma profondo rispetto e voglia di confronto e incontro sulla scena, non un allestimento come pretesto per fare un bel discorso filosofico, ma necessità di leggere l’opera come un dramma vero e profondo. Anche se è scritto in modo anaffettivo e molto parodistico, Binasco cerca in esso le tracce di qualcosa di più intimo e fragile, in cui c’è perfino la pietà, una pietà che si avvicina alle soglie della tragedia classica, solo alle soglie però, perché in Porcile non ci sono eroi.
Sorretto dalla suspence che lievita attorno al mistero di Julian, lo spettacolo procede in senso totalmente opposto allo straniamento e si concentra sul doloroso terzetto familiare, Julian, il padre e la madre – cui danno corpo Francesco Borchi, Mauro Malinverno e Valentina Banci – e sulla giovane Ida, vera vittima della storia, interpretata da Elisa Cecilia Langone.
In ognuno dei personaggi vive e pulsa un’ossessione che lo sporca di umanità, di sentimento:
Julian è sporco della sua mostruosità e del senso di colpa e della paura che ne scaturiscono, soffre per la sua diversità inconfessabile in modo del tutto disarmato, isolato, è sempre solo dentro la rappresentazione finché attua una svolta: decide di andarsi bene così com’è. Capisce che il sentimento che prova è amore e che, anche se si tratta di un amore ancora più inconfessabile e dannato di un vizio, è capace di liberarlo dal tormento della sua mostruosità. Quasi sereno si avvia verso una morte anonima, senza consolazione, senza eroismo; il padre e la madre sono sporchi dell’amore per Julian e del dolore di non comprendere il suo disagio, si straziano, piangono lacrime per l’incapacità di accettare l’orrore della sua mostruosità, arrivando addirittura ad anteporla a quella di un ex criminale nazista, come se le colpe di quello fossero preferibili a una disgustosa sessualità, perché un crimine indigna, un degenerato sessuale disgusta. Dinnanzi al disgusto siamo inermi; Ida è sporca dell’amore per Julian, del bisogno di sentirsi utile, del desiderio di fare un gesto eroico, di salvare Julian. È portatrice di primavera alla persona sbagliata.
Gli altri personaggi, l’amico fidato del padre Hans-Guenther, Franco Ravera, l’ex criminale nazista Herdhitze, Fulvio Cauteruccio, il contadino Maracchione, Fabio Mascagni, e il servitore di casa, Pietro D’Elia, ruotano attorno a quel nucleo centrale di ossessioni e sporcizia umana per fare risaltare lo sguardo più intimo, disarmato, umano che Pasolini vi cela.
E Binasco rintraccia quello sguardo intimo in un tema che non è tra i topoi della poetica pasoliniana, come se fosse un problema inconfessabile: l’amore per il Padre. È un amore immaginario, una mancanza, un incontro disatteso, un’agnizione clamorosamente assente in tutta l’opera pasoliniana. Non ci sono quasi mai padri nelle sue opere, solo in teatro se ne intravedono due, in Porcile e in Affabulazione, e sono padri dentro a una tragedia, quella di non riuscire mai ad incontrare il figlio, non ne sono capaci e si struggono per questo. Una traccia, questa, che conduce in un territorio molto diverso da quello che potrebbe venir fuori da un quadro di Grosz. Le scene dello spettacolo sono di Lorenzo Banci, I costumi di Sandra Cardini, le luci di Roberto Innocenti.
Intorno allo spettacolo, sabato 7 novembre al Cinema Terminale alle ore 17 ci sarà un incontro con la compagnia aperto al pubblico, nell’ambito del progetto “Pasolini 40 anni dopo”, promosso da Arci Prato, Casa del Cinema di Prato, Associazione Pasolini. La stessa sera alle ore 21 sarà poi proiettato il film di Pasolini.
Al Teatro Metastasio dal 5 al 15 novembre
(feriali ore 21.00, domenica ore 16.00, lunedì riposo).