Da martedì 15 a domenica 20 settembre al Teatro Fabbricone alle ore 21.00 in prima nazionale vanno in scena “Le Mutande” di Carl Sternheim, una nuova produzione del Teatro Metastasio con protagonisti gli attori della compagnia stabile – Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Francesco Borchi, cui si aggiunge Fulvio Cauteruccio – e la regia del giovane pratese Luca Cortina, coadiuvato da Paolo Magelli nel ruolo di dramaturg.
“Il lavoro da me iniziato al Teatro Metastasio – commenta Magelli – termina con due spettacoli che sono fortemente legati da un discorso politico comune e lo considero il mio testamento culturale. Se Porcile di Pasolini-Binasco parla dell’Italia grassa e criminale uscita indenne dalle viscere della Repubblica di Salò, Le mutande di Sternheim-Cortina risalgono alla fonte di un’Europa che durante la lotta della prima, volgarissima accumulazione del capitale è già malata di fascismo. È una stanza di malati di nervi, quella di Sternheim. Un perverso laboratorio di manie che rappresentano gli archetipi di una società che porterà la famiglia Maske al successo economico e sociale. Theobald, grazie agli eventi provocati dalla banale caduta di un paio di mutande dal corpo di Luise, sua moglie, durante la sfilata dell’Imperatore, lascia una cospicua eredità al figlio, che con varie speculazioni riesce a raggiungere i vertici dell’economia trasformando i Maske nei più potenti produttori di armi da guerra d’Europa. Sternheim sembra raccontare la storia dei Krupp prima che ancora esistessero. Il ciclo dei sei drammi di Sternheim dedicati all’Eroe Borghese, del quale Le mutande è il primo, rimane una delle opere fondamentali del teatro europeo moderno. Tanto fondamentale che fu una delle raccolte che i nazisti si preoccuparono di bruciare in piazza a Monaco con più urgenza. Peccato che ancora oggi il pubblico italiano ne attenda la traduzione”.
Carl Sternheim è riconosciuto, insieme a Bertolt Brecht, come uno dei maggiori drammaturghi tedeschi del ‘900. Le sue commedie sono satire taglienti della borghesia benpensante e del proletariato in ascesa all’epoca dell’impero di Guglielmo II. Le mutande, scritto nel 1908, è il primo testo di una tetralogia che comprende anche Lo snob, 1913 e Il fossile. Attraverso questo ciclo, Sternheim racconta la storia della famiglia Maske, che partendo da una condizione impiegatizia piccolo-borghese giungerà nelle generazioni a guidare un impero industriale in grado di decidere le sorti della Germania e dell’Europa.
L’importanza dell’opera di Sternheim nella storia del teatro tedesco del XX secolo non ha equivalenti; le condizioni da cui partiva erano quelle di una società impenetrabile da ogni alito di poesia, incapace di qualsiasi autoanalisi. a proposito de Le mutande scrive: “Quando nel 1908 pubblicai una commedia borghese il teatro tedesco, sulla scia del naturalismo di Gerhart Hauptmann, conosceva solo la mascherata del vecchio re delle favole, della giovane regina, del paggio che, sotto numerosi travestimenti, facevano rientrare il romanticismo dalla finestra; lontani dalla realtà, in costumi sontuosi, le loro parole esprimevano splendore e agivano solo in modo sublime. Nel mio lavoro, la moglie di un borghese perdeva le mutande; sulla scena, in un tedesco spoglio, si parlava solo di questo fatto banale.”
Nelle “Mutande” è un evento buffo ma tragico ad aprire la storia. La signora Luise Maske perde le mutande durante la parata dell’imperatore. Le reazioni all’incidente del marito Teobald Maske, della vicina sig.na Deuter, del sig. Scarron e del sig. Mandelstam, due uomini attratti dal fascino di Luise, tra morbosa curiosità e perversa fantasia, tratteggiano profili inquietanti di personaggi che in nuce anticipano il carattere di coloro che diventeranno i protagonisti dei grandi poteri industriali che sorreggeranno il nazismo. I protagonisti di questo mondo sono determinati a lottare con eroica passione, attingendo al corredo originario delle proprie energie contro le resistenze sociali. Sono rappresentanti di quella maggioranza silenziosa orgogliosamente anonima e comodamente lontana dalle prime linee, che dietro la maschera dell’anonimato e della modestia protegge la realizzazione di una scalata sociale, che Sternheim interpreta non come semplice obbiettivo nella vita dei suoi personaggi, ma come significato unico della loro esistenza.
C’è l’assenza dell’amore, non ci sono sogni, non c’è utopia; è il trionfo dell’assenza dell’amore, che nel testo si articola nel trionfo del machismo intellettuale, espresso dall’annichilimento della natura sognatrice di Luise, per causa e ad opera della ferocia opportunistica degli altri personaggi. La vita scorre in occasioni di utilizzazione gli uni degli altri, qualcuno più furbo può certificare il suo successo riuscendo a farsi due soldi: se i presupposti, che Sternheim registrava più di un secolo fa, sono questi, le catastrofi della nostra società ne sono la conseguenza.
Non è vaudeville questo testo, come già l’autore ribadiva ai suoi contemporanei, Sternheim è più triste di Brecht: con audacia, durezza, acutezza che oggi ancora riescono a stupirci e che a suo tempo dovettero sembrare inverosimili, Sternheim assale la figura nuova del suo tempo, il borghese, che si preparava alla partenza giubilante della guerra del ‘14, del parvenu che avrebbe identificato l’etica con l’ascesa sociale fondata sul denaro. Ci offre la propria realtà contemporanea non preoccupandosi di renderla masticabile, ci butta al centro dell’azione obbligando la realtà a presentarsi senza essere annunciata. Per farlo il linguaggio naturalista risulta insufficiente, Sternheim distorce il naturalismo, progressivamente lo deforma attraverso momenti epilettici, compressioni ed esplosioni, inventa un linguaggio nuovo che oggi riconosciamo come minimalista, fatto di brevi, atroci, idiote battute che trasmettono il sapore del paradosso della vita.