Cos’è stato il tessile per Prato nella famigerata età dell’oro è noto a tutti: soldi, soldi e ancora soldi. Spesso ingiustificati, a volte strameritati ma sempre accolti come il trionfo dell’uomo (inteso come maschio, perché questa è una storia prevalentemente patriarcale) sui testoni, sulle teorie economiche e molto spesso sulle regole. Anni ’70, anni ’80. Due decenni innervati da crisi anche economiche, inflazione a due cifre, dalla terribile instabilità degli anni di piombo e dall’equilibrio statico del compromesso storico. Anni difficili per gli altri, anni facilissimi per noi a Prato. Anche troppo. Anche se nessuno si preoccupava né si sognava di intimorirsi su quando sarebbe terminata cotanta cuccagna.

nesi_estate_infinitaNelle librerie, dallo scorso 4 giugno Bompiani ha offerto ai palati della pratesità nostalgica dei piccoli imprenditori, dei padroncini tutta voglia di lavorare e zero tituli (letti), L’estate infinita, l’ultimo romanzo del premio Strega e deputato della Repubblica, Edoardo Nesi, incentrato sulla figura mitica di Ivo Barrocciai, l’imprenditore dei tessuti diventato di successo. Sì, è vero. Il nome della città nelle 453 pagine non viene mai pronunciato, ma l’identikit fra vacanze in Versilia, la vicina Firenze e la famosa ‘Zona Verde’ è migliore di una foto-tessera. Il nostro capitano d’industria vive la sua vera età aurea – non quella dell’altro romanzo del deputato, che invece è incentrato sulla sua decadenza – rovesciando lo schema di fare impresa del padre e si impegna a 32 anni a produrre tessuti, di loden (chiaro omaggio alla figura di Mario Monti, per merito del quale oggi ha un seggio a Montecitorio?), nonché a ingigantire il suo ego, costruendo un maxi-capannone da 10 mila metri quadrati comprensivo di una piscina olimpionica da 50 metri per 25, profonda 5.

Chiaramente, quel tipo di sognare senza genialità viene ricompensato con una quantità infinita di denaro, successi personali, relazioni rigorosamente fedifraghe – Ivo, ci tiene a far sapere l’autore è una sorta di monaco del profitto, sposato solo con la sua amata ditta – e lasciando quel senso profondo di rammarico nel lettore per quelle formidabili fortune che si potevano creare, soltanto mettendo una cieca dedizione al lavoro. Sarà cura dei lettori, scoprire i dettagli della storia – non è intenzione spoilerare troppo la trama – come dei critici letterari sanzionare o benedire le costruzioni sintattiche stressate con periodi lunghi 2/3 di pagina, illimitati al pari della crescita economica di quell’Italia e, in particolare modo, di quella di Prato. Ci sarebbe molto da dire, tuttavia e molto c’è da dire, in realtà, su quella che negli anni è diventata la narrazione nesiana dell’espansione del distretto tessile pratese e sull’epopea dei piccoli imprenditori nel Secondo Dopoguerra.

Il premio Strega si fa carico del racconto di come la voglia spasmodica di riscatto sociale e i meccanismi naturali di competizione fra Stati, ma soprattutto fra singoli individui abbia dato corpo e gambe al vorticoso sviluppo degli anni 1970-1979: una crescita del Pil del 40%. Con un appendice al 1982, quando l’Italia vince i Mondiali e – meglio tenersi a distanza dall’impopolarità – ancora i cinghialoni del Psi non hanno completato la scalata al Governo del Paese. Già, perché il nostro fa professione di sprezzo verso l’ostentazione e l’edonismo degli anni ’80.

Capirai, dal 1983 a palazzo Chigi arriverà quel battaglione di cinghialoni del Psi. Quindi, meglio non parlarne. Anche al costo di dolorose omissioni. L’idea che il genius loci negli anni craxiani e reaganiani fosse diventato altro rispetto agli anni ’70 non solo è ridicola, ma costringe anche ad una spericolata scissione dei personaggi. Se un poco più che trentenne Barrocciai era il motore trainante dell’economia lo era a maggior ragione e ancor di più da quarantenne, quando quelli della sua coorte generazionale (i Bettino, i Martelli, i Signorile) presero le redini del Governo e cercarono di interpretare proprio il dinamismo smodato espresso da Ivo e dagli altri colleghi della piccola e micro-industria.

Un dettaglio ineludibile anche per chi consapevolmente ha voluto escludere ogni elemento di contesto politico dalla narrazione, poiché troppo lontano geograficamente e sul piano sociale da quel che accadeva fra gli eroi del made in Italy. A meno che non si voglia far morire di un colpo apoplettico i Barrocciai nella festa di Capodanno del 1983, ma sarebbe contraddetto appunto dall’altro testo, l’Età dell’oro.

nesi_edoardoTuttavia, a chi ha avuto l’onore di essere allevato in questa terra, e quindi ha in carico anche un dovere di sincerità verso la storia degli anni formidabili dei telai, non può sfuggire un’altra e più significativa amnesia. Che costituisce il sigillo di quanto l’autore voglia incastonare un’apologia e non una rivisitazione minimamente critica di quelle avventure imprenditoriali. Fra i capo-cantieri Vezzosi, i pittori-imbianchini alla Pasquale Citarella l’universo delle zoccolette di provincia in stile madre di famiglia Arianna oppure nel formato esuberante di un’insaziabile parrucchiera, la Ganza Storica (a proposito, manca un metalmeccanico e sembra una citazione del turbine di sesso della Wertmuller), l’autentico protagonista del miracolo pratese dei Barrocciai è stato eliminato, dimenticato: l’Andreottiano.

Lo spregiudicato amministratore che proprio nel 1971 arrivò alla guida della Cassa di risparmio locale e con l’aiuto del Florido direttore iniziò a inondare di liquidità il mercato, accordando di là da ogni merito creditizio finanziamenti e fidi agli artigiani e agli industriali, perennemente – come già si diceva allora- sottocapitalizzati. E non è questione di storia di Prato. O meglio, non è solo in gioco un’autentica nel racconto rispetto alle dinamiche del nostro piccolo borgo industriale. Piuttosto, quando si inciampa nella figura dell’Andreottiano e dei suoi 3.000 miliardi di lire di finanziamenti al mondo produttivo (pari al 65% del totale di impieghi creditizi cittadini) a fronte di 2.000 depositati dai risparmiatori si ha a che fare col lato oscuro del nostro sviluppo.

L’Andreottiano, com’è noto, rischiò e pagò personalmente la generosità di quella politica creditizia, vezzeggiato proprio fra gli anni ’70 e fino alla metà degli anni ’80 eppoi brutalmente incriminato, scaricato per aver permesso anche ai Barrocciai di lavorare e di permettersi un altrimenti impensabile miglioramento del proprio status economico. Ed espungerlo dal contesto se per un verso appare l’accantonamento di un protagonista assoluto- come poteva essere allora per i Berlusconi il credito facile del Monte dei Paschi di Siena- contestualmente è l’applicazione di un accorto oblio su meriti e limiti di quella fase di crescita.

Senza il banchiere munifico al lettore appare davvero che prima della “maledetta globalizzazione” l’iniziativa imprenditoriale potesse da sola ricompensare la semplice fatica, slegata dalla conoscenza, dall’ingegno applicato allo studio. E ciò è il modo migliore per farne un’apologia senza difetti. Una storia interrotta solo dall’incantesimo mondialista di qualche governante malvagio. Un filo narrativo compiaciuto dei suoi eccessi e che lascia solo alla socialmente insignificante, casalinga Maria, moglie del pittore-imbianchino Citarella, un dubbio da economista domestica:

No, doveva per forza esserci qualche altra ragione, ma per quanto si sforzasse non riusciva a trovarla, e allora, divertita dal fatto di assistere- e anzi di vivere dentro- a un grande spettacolo inspiegabile, a volte si diceva che a splendere su di loro non era che la fortuna. Sì, il merito doveva essere di uno spirito benigno che si era posato su quella città e su quella gente per regalarle un po’ di lavoro, e col lavoro erano venuti la buona sorte, il riscatto, l’orgoglio, la fiducia nel futuro e quel briciolo di felicità che le pareva di veder brillare negli occhi di tutte e di tutti, alla Zona Verde”.

Che quella fortuna in realtà avesse un volto a Prato e ovunque una mano bancaria senza freni non può sfiorare il lettore, dal momento che lo scrittore ha visto bene di rimuovere alla radice il problema, togliendo di mezzo il personaggio d’ingombro e il quesito su quanto fossero economicamente sostenibili, razionalmente giustificate e moralmente lecite le fortune in corso di creazione. E si può restare inquietati a sufficienza a pagina 30, sbattendo gli occhi sul dialogo che getta una luce di comprensione persino sull’abuso edilizio, fra Cesare Vezzosi e Ivo Barrocciai:

– Ma un progetto, in Comune, bisognerà presentarlo, Ivo. E il progetto qualcuno lo deve firmare…
Sì?
Certo. È la legge…
La legge…La legge del cazzo, sempre fra i coglioni…La mia fabbrica la voglio fare come dico io, non come dice la legge, però…Non voglio uno che venga a comandare in casa mia, capisci? E poi ho già tutto in testa…

È la premessa per costruire la piscina olimpionica, che quando arriva per un’ispezione il funzionario del Comune, Bistecchi il sempre pronto Barrocciai gabella per un’immensa vasca anti-incendio della ditta. L’ennesimo tassello di una ricostruzione di comodo dell’età aurea del tessile e del made in Italy dei distretti. Senza mai un inciso critico, un avvertimento da parte dell’autore che senza idee, studi, business plan si rischiava di finire male. Figuriamoci, anestetizzata la storia dai personaggi sbagliati – almeno per i suoi parametri- e dalle fragilità strutturali di quel modo di intendere il gioco sociale di fare impresa, lavorare e progredire nella scala sociale, il lettore può gustarsi appieno il Barrocciai che spende sempre di più fra viaggi in America in Concorde e cene in Versilia per il concerto di Gloria Gaynor da 3,5 milioni di lire col massimo della spensieratezza.

Quel che permane e che neanche il buon Nesi può cancellare è il senso complessivo di reticenza sui difetti, che stavano bacando l’ultimo vero boom economico, ipotecando per denaro e tempo sprecato senza prospettive un pezzo cospicuo del futuro e dei figli della generazione di Ivo.

E alla fine un lettore può pure pensare che l’intera saga dei Barrocciai sia un rovesciamento di un aforisma capace di forgiare tanti giovani lontani dai telati: “Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati”. Pronto ad una metamorfosi in un “Ci sedemmo dalla parte della ragione, perché avevamo prenotato da settimane un posto in prima fila”.

Carlandrea Poli lavora per l’agenzia Dire, tifa Milan e Mourinho, è fan di Sartre e del neomonetarismo.