Ci sono volute più di due ore perché qualcuno formulasse la domanda nel modo giusto, venerdì scorso al convegno “Immaginare le Chinatown – Letteratura della diaspora” organizzato da Dryphoto e ospitato dalla Camera di Commercio. Il convegno ha raccolto studiosi, giornalisti e scrittori per parlare delle Chinatown nel mondo, dell’integrazione delle comunità cinesi nel mondo e quindi anche della situazione pratese.
Integrazione: quando?
La domanda, portata in chiusura dal giornalista del Tirreno Paolo Nencioni, è una considerazione molto semplice che tutti quelli che hanno a cuore Prato si sono fatti almeno una volta (cinesi compresi), qualsiasi opinione politica abbiano. Si può riassumere così: “Perché i rapporti tra comunità cinese e pratesi non sembrano cambiare nonostante la convivenza duri ormai da anni?“. Cioè, arriverà un momento in cui tra cinesi e pratesi scatterà, s’aprirà qualcosa che farà andare le cose meglio di come sono andate finora?
La risposta è venuta dall’antropologo americano Gary W. McDonogh, che nel suo intervento precedente aveva illustrato le evoluzioni delle Chinatown nel mondo e mostrato come ad un certo punto le comunità cinesi si fossero inserite nel tessuto sociale della città e del paese ospitante grazie alla natura stessa delle Chinatown, cioè “luoghi ibridi dove le persone si incontrano e dove s’incrociano le creatività“.
“Difficile rispondere – ha esordito però McDonogh – Come americano per esempio devo dire che gli afroamericani fanno parte della civiltà americana ma i recenti fatti di cronaca ci dicono che non è affatto così”. L’antropologo ha poi cercato di spiegare meglio come l’integrazione non sia un processo meccanico e unidirezionale. “Il senso di appartenenza (degli immigrati ndr) non viene modellato dal tempo ma da quello che succede nella società a livello locale e nazionale – ha detto – I cinesi in America si sentono più americani perché in America ci sono molte persone che vengono da ogni parte del mondo. Il fatto di essere cinese è poi diverso per ogni cinese e per ogni paese che li ospita. In Europa, per esempio, è diverso perché i cinesi vengono percepiti come esterni a qualsiasi altro gruppo culturale – ha concluso – Quindi il senso di appartenenza dipenderà molto dalla società che li ospita“.
Una porta per aprire tutte le altre?
L’intervento di McDonogh ha raccontato le Chinatown nel mondo ma è cominciato con Edoardo Nesi e con la descrizione che lo scrittore pratese fa dei lavoratori cinesi a Prato in uno dei suoi libri. McDonogh l’ha chiamata “cinesità“. L’antropologo americano ha detto che la descrizione dell’operosità e delle attività cinesi a Prato sono identiche a quelle che altrove identificano quartieri e realtà denominate Chinatown. “Solo che a Prato – ha detto – Chinatown non viene considerata come tale in modo ufficiale”. Insomma, un paradosso.
Partendo dal presupposto che le Chinatown sono ovunque, l’antropologo ha spiegato che c’è un motivo semplice per questo fenomeno: “Le Chinatown compaiono dove ci sono emigranti cinesi che hanno seguito interessi europei“. A Parigi, per esempio, “i primi cinesi sono arrivati per costruire le trincee della Prima Guerra Mondiale – ha raccontato – poi ne sono arrivati altri negli anni ’70 a causa delle guerre in Laos e Vietnam. Dagli anni 2000 le Chinatown sono comparse addirittura nelle banlieue, tanto che in città adesso ci sono cinque o sei Chinatown”.
Alla fine insomma anche gli immigrati cinesi si radicano al territorio che li ospita e diventano parte integrante della società. In questo senso, sono stati gli interventi di Giorgio Bernardini, giornalista autore del libro “Chen contro Chen” sulle seconde generazioni cinesi a Prato, e quello sulla letteratura di giovani autori cinesi di Valentina Pedone, a fornire spunti interessanti. Questo processo sarebbe già avviato, in Italia e a Prato.
Valentina Pedone, nel suo intervento sulla letteratura della diaspora, tra le altre cose ha infatti sottolineato che esistono opere (libri, film, cortometraggi) di emigrati o di figli di emigrati in cui non si trovano elementi legati all’emigrazione e al disagio che ne consegue. Cioè, si darebbe già come assodata l’appartenenza al paese adottivo.
Giorgio Bernardini invece ha sostenuto che da un punto di vista mediatico e popolare la Chinatown pratese è già diventata tale e, addirittura, viene usata “come punto di riferimento mediatico. Non solo geografico. Le persone cioè capiscono Prato secondo la posizione di Chinatown”. Nel suo “Chen contro Chen“, Bernardini ha intervistato molti giovani di origine cinese, le cosiddette seconde generazioni (Marco Wong, presidente di Associna, ha però detto che “che il termine seconde generazioni è fuorviante e che bisogna stare attenti: sembra che non importa da quanto tempo sei qui e sempre un immigrato rimarrai. Reitera l’estraneità”).
“I primi abitanti di Chinatown – ha detto Bernardini – sono stati quelli venuti per sfruttare un ciclo economico. I figli di queste persone non parlano la loro stessa lingua, se non il dialetto di provenienza. I giovani immaginano il loro futuro a partire da Prato e da Chinatown per poi spostarsi magari nella grandi capitali europee”. Ma ha anche sottolineato che alla domanda “C’è interesse di fare di questa Chinatown un luogo diverso e magari appetibile dal punto di vista turistico? La risposta, tra quelli intervistati, è stata sì”.
Le ipotesi e le discussioni del cambiamento da apportare alla Chinatown pratese hanno portato ad una considerazione che riguarda le famose “porte” che ogni quartiere cinesi che si rispetti mette in mostra. E’ stato lo stesso Bernardini a chiedere all’antropologo americano perché Prato non abbia una “porta come si deve”. Argomento ripreso sul finale anche l’intervento di un cinese dalla platea, che ha chiesto “come fare ad accelerare l’integrazione, visto che a Prato il termine Chinatown è usato in modo poco positivo?“.
McDonogh ha risposto che le porte sono un’invenzione diventata ormai un’abitudine e intorno alle quali ci sono sempre molte discussioni. In generale però, ha spiegato, “La Chinatown, se è permanente, può avere una porta, perché questa rappresenta un legame con la Cina. Whashingotn, Lima o San Francisco hanno costruito le porte in collaborazione con la Cina – ha spiegato – Però se ci metti una porta, può essere attrattivo per i turisti ma non agevola l’integrazione. Io penso – ha concluso McDonogh – che a Prato, Chinatown si possa rendere un’attrazione turistica solo se i cinesi hanno anche altri luoghi da vivere“.
Gestione della diversità
Qualcosa sta già succedendo anche secondo l’antropologo Massimo Bressan, presidente di Iris-Ricerche e del Met, che però ha sottolineato un aspetto delicato della faccenda, il rapporto tra integrazione e politica, in cui hanno e hanno avuto un ruolo fondamentale i media.
Bressan ha cominciato il suo intervento citando le polemiche suscitate a Prato nel 1978 (37 anni fa ndr) da una serie di articoli stranieri che descrivevano Prato come un “inferno del tessile” e dove comparivano le parole “sfruttamento” e “autosfruttamento”. “In quegli anni Prato faceva chiudere aziende tessili in Francia e in Germania e quindi, a costo di scrivere anche cose poco credibili come successo, i media cercavano di reagire a questo fenomeno”. Una dinamica simile a quella successa invece a Prato con l’arrivo e la diffusione dei cinesi, il cosiddetto “Assedio Cinese” descritto da centinaia di articoli, servizi televisivi e reportage italiani e stranieri. Che da una parte hanno alimentato contrasti e separazione tra i residenti e anche a livello economico, e dall’altra “ha suscitato la melanconia post-industriale dei pratesi” ha detto Bressan.
“Esistono però degli ambiti in cui le cose si stanno muovendo, nella scuola, nella sanità e anche nella cultura – ha concluso – Sono aspetti dai quali partire e su cui lavorare per costruire una nuova prospettiva di gestione della diversità. E’ una sfida per sviluppare un cronotopo (l’effetto che ha sulle persone la combinazione del tempo-quando e dello spazio-dove ndr) che ci spinga verso nuove prospettive più positive”.
Conclusioni (iniziali)
Il convegno di Dryphoto, che venerdì prossimo lancerà la seconda tappa del progetto “Piazza dell’immaginario“, è però cominciato con le parole del console cinese a Firenze Wang Fuguo. Che ha detto, tra le altre, due cose molto complesse in modo molto semplice, tracciando quella che è sembrata essere una linea netta tra il passato e il presente di Prato dal punto di vista cinese.
1) “Adottando uno spirito di tolleranza e di mutuo vantaggio, tutti i residenti facciano la loro parte per dipingere una Prato più armoniosa e prospera”.
2) “Se si pensasse la comunità pratese come un bel quadro, quella cinese sarebbe una dei suoi pittori principali”.