Ora, fare il musicista è già un gran casino di per sé, se poi ti capita di fare il musicista in Italia e non somigli né alla Pausini né a Mengoni il casino si decuplica e, o ti vuoi male sul serio, o sei bravo davvero. O magari tutte e due insieme.
Ho il sospetto, però, che i Tanks and Tears facciano parte della seconda categoria (di quelli che sono bravi davvero, per chi non sapesse contare), e si dilettino anche in un genere musicale non solo difficile e di un certo livello, ma anche estremamente raro dalle nostre parti. Qui in Toscana vanno gli stornellatori, parrebbe. I Tanks and Tears sembrano scappati da un club dark wave anni ’80. Amano i Soft moon, i Bauhaus, i Nine inch nails, i Cure, anche se il background di Claudio, il chitarrista, è decisamente spostato su rock classico, heavy metal: “Una canzone mi deve prendere a livello fisico – dice – se vado a correre e una canzone mi foga diventa quella che mi sento anche in camera, mentre cammino, mentre guido”.
Il nome Tanks and Tears è mutuato da un articolo uscito per la morte di Chavez: “C’era scritto: carriarmati e lacrime al funerale di Chavez. Tradotto in inglese suonava bene, e riprendeva un po’ un vecchio progetto che avevamo, gli Special Tanks”. Nati nel 2013 come duo con al basso e alla voce Matteo Cecchi e alla Chitarra Claudio Pinellini, i Tanks and Tears approdano alla formazione originale nel 2014, quando si unisce il batterista Francesco Ciulli.
“E’ sicuramente diverso suonare con un batterista piuttosto che con una drum machine – spiega Claudio – non ci sono paragoni. Ci è venuto a veder suonare, ha sentito il nostro demo (Che si chiamava demo – voce fuori campo di Matteo) ed è diventato il pezzo mancante del puzzle. Lo conoscevo già, e sapevamo che poteva funzionare. E poi, anche da un punto di vista scenico, la cosa migliora parecchio: sono abituato a girare a 360° mentre suono sul palco. Girarsi e non trovare nessuno era quasi desolante. La drum machine è molto meccanica, è difficile essere coinvolti pienamente. Con Francesco abbiamo anche avuto una svolta a livello compositivo: siamo riusciti a fare quello che volevamo fare in origine, shoegaze, punk, new wave.”
“L’obiettivo – conclude Matteo – è quello di creare un suono riconoscibile al primo ascolto. Vogliamo che la gente senta un nostro pezzo e dica: questi sono i Tanks and Tears”
Pare che abbia funzionato eccome, in effetti: i Tanks and Tears hanno tutte le carte in regola per diventare una di quelle band che, fra qualche anno, farà il botto all’estero. In Italia non saprei. Non perché non possano farcela, tutt’altro, ma perché questo paese va un po’ troppo stretto a un certo tipo di musica. E di musicista. Pare che le reazioni della gente oltreconfine mi diano ragione, perché gli apprezzamenti arrivano da Germania, Irlanda, Sudamerica; anche Mick Mercer ha dimostrato di apprezzarli. Qui da noi hanno ricevuto diverse ottime recensioni e, pur essendo di relativamente recente nascita hanno già all’attivo un discreto filotto di concerti: “A Prato probabilmente siamo gli unici a suonare questo tipo di musica – dice Francesco – in Italia sicuramente ce ne sono molti altri”.
I Tanks and Tears hanno in circolo un Ep, Know yourself, per la Swiss dark night, e due video: “Fino a poco tempo fa, con la drum machine, comporre era più macchinoso – dice Claudio – adesso il processo è quello classico: ci troviamo in sala prove, buttiamo giù un po’ di musica e un po’ di voce e ci lavoriamo sopra. Non ci piace l’idea di qualcuno che arriva con un pezzo già pronto e lo impone agli altri, siamo un gruppo e come tale funzioniamo”. La band è già al lavoro su nuovi brani, da inserire nel primo effettivo album: “Tutto dipenderà da quanta attività live avremo a settembre – dice Matteo – cosa che influenzerà il tempo che avremo per registrare i pezzi: in ogni caso, appena inizieremo a farlo, dovremo entrare in studio e registrare velocemente, perché anche i soldi sono quelli che sono”.
“L’Ep è sempre un cantiere con cui la gente si fa un’idea – dice Claudio – ma non è il disco: nel disco ci dev’essere tutto, dev’essere completo. Ci dovrà essere un’evoluzione, un suono più accurato: strumentazione implementata e idee chiare su tutto, suoni arrangiamenti, sovraincisioni, tutto.”
“I pochi proventi che ci sta dando la musica li investiamo tutti nella band – conclude Francesco – e anche durante le prove stiamo lavorando sulla ricerca di nuovi suoni: Matteo lavora sul modo di cantare e sulle voci, io ho aumentato la portata della batteria. Comprare strumentazione di qualità superiore non ti rende immediatamente più bravo, ma quella roba data in mano a chi ha un minimo di esperienza ti da parecchie soddisfazioni”.
“Sto ascoltando l’Ep in continuazione, cercando di rielaborarlo – dice Claudio – non perché non ne sia soddisfatto, ma perché è un processo continuo di miglioramento, cerco di capire cosa avrei potuto fare in più”.
I testi dei Tanks and Tears sono frutto di esperienze personali di Matteo, “Tranne Hills of death and blood – spiega – che è un omaggio alle vittime del Mostro di Firenze. Questo disco riflette un po’ tutte le sfumature della mente, i pezzi sono storie vere, non sono collegati l’uno con l’altro, ma possono essere storie di tutti. La scrittura dei testi è una delle cose che dovrà evolvere, in futuro”.
Dopo aver suonato un bel po’ in giro il futuro live dei Tanks and Tears si presenta in questo modo: “Siamo usciti in un momento un po’ ostico, la programmazione estiva è già quasi tutta fatta – dice Claudio – anche se forse rientreremo in qualche festival. Da settembre forse ci sarà la possibilità di suonare all’estero, e vedremo cosa succederà. Purtroppo in Italia la situazione è sempre la solita, qui da noi: chiude il ControSenso, tutti a dispiacersi ma nessuno che abbia detto: facciamo qualcosa. La predisposizione per la musica dal vivo è poca, c’è molta meno curiosità.”
“C’è più interesse da fuori Italia – dice Matteo – Sudamerica, Germania. Siamo stati contattati, anche se la cosa è ancora in stato embrionale. Vediamo come va tutto e, vedremo come fare: quelli sono i progetti per cui sbattersi di più. I Go!Zilla hanno suonato in Messico, e la risposta della gente è molto più forte che da noi”.“Qui c’è interesse per la musica, c’è ancora qualcuno che la segue, ma in realtà c’è talmente tanta roba, e così sparata addosso, che diventa difficile specializzarsi in un genere preciso, o scremare e trovare il bello nel marasma. Paradossalmente l’accesso infinito alla musica la rende più difficile da gestire per chi la vuole ascoltare. – aggiunge Claudio – Prima era necessariamente più selettivo, per un discorso di mezzi, adesso ti arriva così tanta roba che non si sa da che parte rigirarsi. Ti arriva l’invito Facebook del gruppo di ragazzini che fa le cover, quello della band brava che suona in un locale, e tutto si confonde in questo modo.”
Il mondo dei Talent show non ha reso le cose più facili: “Crescere con X Factor rende tutto intenditori di musica senza interesse per la musica live – dice Claudio – a volte manca la cultura di andarsi a cercare una band che suona dal vivo, la curiosità. Quello che facciamo noi non è contestualizzabile in quel mondo, non è così che funziona. Poi certo, se mi dici: vuoi un grande palco? Certo che lo voglio, ma quello non è il nostro pubblico. Ci sono cose particolari anche in questi programmi, ma restano comunque facilmente fruibili dalle persone: il mio professore d’arte al liceo diceva che ci sono cose fruibili anche dalla famosa casalinga di Voghera, che davanti a un Picasso non sa bene come reagire ma rimane incantata davanti a un Matisse: scegliere di fare il nostro genere significa accettare di avere un pubblico più selettivo e ristretto, anche se siamo un gruppo abbastanza melodico per il nostro genere, non siamo particolarmente sfasciaorecchie.”
“In tutti i paesi la scena underground e quella mainstream corrono parallele, allo stesso livello: gli Arctic Monkeys sono sotto etichetta indipendente, per dire – dice Matteo – in Italia l’underground è davvero sottoterra. Si guarda sempre al soldo, e un’etichetta non può investire in tempo su ragazzi o artisti nuovi: si va a cercare il singolo già fatto, scritto spesso da altri, che può vendere di più. C’è un sacco di musica usa e getta in giro. Parecchie band italiane che hanno avuto successo sono andati all’estero: mi vengono in mente Lacuna Coil o gli Exilia.”
E Prato? “Un musicista a Prato non è solo, perché ci sono tanti musicisti – dice Claudio – ma manca una scena precisa, come può essere stato il grunge di Seattle. C’è fermento, e questo è bene, ma non c’è una scena definita. In ogni caso, abbiamo avuto molte possibilità di suonare dal vivo, parecchie opportunità: all’inizio sulla fiducia, poi perché avevamo iniziato a farci un po’ di nome. Se però ti vuoi porre in modo serio, professionale, hai bisogno di un ritorno: è giusto pagare gli artisti, mentre a volte sembra di fare un favore alle band che suonano: io ti do lo spazio, te suoni, ti faccio un favore. In realtà è la band che porta lo spettacolo nel locale. Non si tiene conto delle ore di sala prove, o dei sacrifici che si fanno, come spostamenti e simili. Negli anni ’60 i locali avevano i gruppi resident, come i Doors, ora ripercorrere il passato è un errore, dobbiamo calarci nel contesto attuale, che è davvero strano.” “Il nostre genere, nella zona di Pesaro, ha una scena – dice Matteo – Soviet Soviet, cose così. E’ una cosa rara in Italia. Il periodo sicuramente non aiuta, è difficile che salti fuori una cosa simile, ma è anche vero che al sud ci sono moltissime band che fanno il nostro genere. In Toscana siamo pochi. E’ anche vero che se vuoi campare di musica non puoi sicuramente restare tutta la vita a Prato”.
I Tanks and Tears hanno diviso il palco proprio coi Soviet Soviet, e anche coi Civil Civic, Giorgio Canali, Il Genio. Per avere il loro disco potete contattarli su Facebook o Bandcamp.
Il dieci aprile, al release party dei Go!Zilla, apriranno per la band al Tender di Firenze.
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