Chi ha meno di trent’anni oggi e di teatro s’interessa poco saprà a malapena chi sia Luca Ronconi, l’attore e regista scomparso ieri sera a Milano. Chi invece alla fine degli anni ’70 era a Prato, oppure semplicemente s’interessa di più di cultura e di teatro, ricorderà e conoscerà almeno qualcosa di quella stagione che fece di Prato una città d’avanguardia, ribaltò canoni e connotati del teatro e con il suo Laboratorio di Progettazione teatrale al Metastasio regalò alla città spettacoli memorabili, il Fabbricone (spazio rivoluzionario che fu d’ispirazione a molti altri) e una fama imperitura. Poi di quella stagione si possono valutare in molti modi costi economici e politici, ma rimane indubbio il peso che quel periodo ebbe non solo sulla scena teatrale tutta ma anche sulla cultura italiana.
A quella stagione e a quel modo di intendere modi e valore della produzione teatrale, quarant’anni dopo e in mezzo ad un caos che il teatro pratese non conosceva da tempo, si è richiamato il nuovo presidente del Met Massimo Bressan il giorno della sua presentazione alla stampa, lo scorso mese di settembre. Annunciando i cardini sui quali si sarebbe mosso il nuovo corso, Bressan ha infatti sottolineato la necessità per il teatro pratese di tornare a produrre qualità e a farlo attraverso l’innovazione e la sperimentazione, intessendo quante più relazioni possibili con quanti più soggetti diversi tra loro. E’ qualcosa di molto simile a quel “Laboratorio” che Ronconi, con l’avallo della politica d’allora, mise in piedi e alla quale diede gambe lunghissime quarant’anni fa.
Riuscirà il Metastasio, adesso che la partita per diventare teatro nazionale è sospesa per impraticabilità di campo, a rimettere in moto un meccanismo del genere? Certo, i dubbi sono legittimi, sia sulla natura che sulla tempistica dell’operazione.
Ma chi fu l’artefice e guidò la stagione pratese di allora, di recente ha lasciato alla città di Prato qualcosa di importante, che forse occorre ricordare. E’ il discorso col quale Ronconi ringraziò la città di Prato per avergli conferito la cittadinanza onoraria lo scorso mese di novembre. Sono qualche migliaio di battute appena, capaci però di tracciare non solo il bilancio di una carriera e ribadirne l'”essenza pratese” ma anche di metterne a fuoco i cardini e così facendo trovare una chiave, insieme operativa e interpretativa, per schiudere al futuro il teatro e la cultura italiana.
(Prato) “Non era un luogo di aristocrazia teatrale, era un luogo di pratica, di prassi – cominciava Ronconi lo scorso novembre – Io posso continuare a dire, che già allora come ancora, per quanto mi è possibile adesso, continuo a immaginarmi il teatro come un luogo di conoscenza. Quella è stata qui, e continua a essere la mia vocazione. Non come un luogo di spettacolo o di manifestazione esteriore di artisticità. Conoscere gli altri, conoscere il mondo, conoscere la complessità delle relazioni umane”.
Cui segue quel discorso sul “noi” che il regista citò come fondamento del suo modo d’intendere il teatro. “Noi stiamo vivendo, molto in teatro, una specie di enfasi dell’ “io”, laddove io invece ho sempre cercato di perseguire, nessuna enfasi, ma solamente una considerazione del “noi”. Per questo, disse Ronconi, visto anche che quell’enfasi è dovuta a tanti fattori (“anche magari da fattori economici”), “è difficile proporre un laboratorio come fu quello di Prato”.
Sembrerebbe il saluto ad una stagione irripetibile nella città dove ebbe luogo, se non fosse seguito da queste parole di speranza. “Esiste un futuro anteriore, un futuro attuale e un futuro posteriore. Passati gli ottanta, io voglio pensare che ci sia un futuro posteriore, che assomigli di più al futuro anteriore che a quello attuale“.
E allora forse, seguendo l’invito implicito del regista, sono quella “prassi”, quel “luogo di conoscenza” e quel “noi”, come concetti e modus operandi, a dover esser ripresi e messi lì dove si mettono le cose sulle quali si vogliono costruire visioni e progetti futuri. A Prato prima di tutto, ma non solo.
Foto: www.lucaronconi.it – tgrmedia