Che Renzo Rubino fosse uno bravo, già lo intuivamo. Che fosse un cantautore capace di scrivere canzoni con delle intuizioni di testo interessanti e soprattutto con dei risvolti armonici e melodici niente affatto comuni, idem. Ma quello che abbiamo visto la sera di lunedì 5 gennaio al Politeama Pratese è andato oltre la conferma delle aspettative. E’ duro (e raro) constatare che le belle sorprese non arrivano sempre dalle etichette indipendenti o dalle cantine. A volte anche Sanremo fa il suo dovere.
Comunque, Renzo Rubino non è un animale da Sanremo, nonostante il fatto che di festival dei fiori ne abbia già fatti due. E’ uno che con le canzoni (e con le emozioni) ci gioca e se le impasta a suo modo e piacimento. Arriva nella penombra della sala con un ombrello aperto pieno di lucine, alla faccia delle superstizioni. Si accomoda, a sipario chiuso, dietro un pianoforte giocattolo di Tomwaitsiana memoria e già possiamo intuire dove si va a parare. Poi si apre il sipario, e si accomoda dietro al pianoforte vero, sotto un’installazione artistica di lampade in stile Pixar e ci allieta per un paio d’ore con le sue creazioni, praticamente tutte le canzoni dei suoi due album ufficiali, “Poppins” e “Secondorubino”. (Dal banchetto del teatro scopro che ne esiste un terzo, un mini album intitolato “Farfavole” uscito prima di tutti. Da scoprire, per quanto mi riguarda).
Creazioni, non canzoni: le canzoni di Rubino sono dei piccoli gioiellini fintamente facili, accattivanti quanto basta ma complessi dal punto di vista delle strutture, dell’estensione (e ci gioca, dal palco, su questa qualità oramai veramente poco comune: “Non sono uno che fa pezzi su un’ottava sola”). Il gruppo che lo accompagna, Gli Altri – un gruppo completamente “guitar free”, come sottolinea ammiccante dalle note dell’ultimo disco – lo segue perfettamente in questa sua folle dissertazione, sia quando gioca col pop e con l’ironia (e sta dalle parti del primo Renato Zero, tanto per dare dei riferimenti un po’ tagliati con l’accetta) sia quando è più posato e poetico (e sta tra certo cantautorato di classe un po’ alla Bindi e certi ammiccamenti Caposseliani – un peccato veniale perdonabile). In ogni caso, il risultato è autenticamente originale, e al momento in Italia non ha eguali.
Ma Renzo Rubino non è solo eclettico come autore: lo è anche come interprete. Sa spaziare da Adamo (“La notte”) a Pino Daniele, omaggiato nel giorno della sua scomparsa con un’improvvisata quanto sentita “Napule è”. In chiusura ci regala una versione impeccabile ed emozionante della “Canzone dei vecchi amanti” di Jacques Brel dopo averci spiazzato tutti con una versione di un capolavoro del trash involontario come “Che brutto affare” di Jo Chiarello, perla di Sanremo 1981 firmata da Franco Califano. Applausi.
Insomma, quello che abbiamo visto al Politeama Pratese la sera di lunedì scorso è stato lo spettacolo di un artista già maturo, capace di spaziare dal sublime al grottesco, capace di emozionare e di far sorridere, capace di reggere quella brutta bestia che è il teatro, dal punto di vista della qualità dell’esibizione. E pensare che ha solo 26 anni.
Foto: Mirko Lisella.