Dopo il grande consenso di pubblico e di critica riscosso nei principali teatri d’Italia nelle ultime 3 stagioni, La cantatrice calva di Eugène Ionesco, ultima regia di Massimo Castri che, già colpito dalla malattia, non è riuscito a portare a termine personalmente ma ha affidato a Marco Plini, torna al Teatro Metastasio sabato 6 dicembre in doppia replica alle ore 11 e alle 21 e domenica 7 dicembre alle ore 16.
Scritta esattamente a metà del secolo scorso, nel 1950, La cantatrice calva racchiude in sé le istanze di un movimento teatrale che abbandona il polveroso accademismo del teatro borghese protrattosi fino a quel momento; si tratta di un teatro che delle parole mantiene soltanto il guscio e dei contenuti la semplice forma esterna, permettendo allo spettatore di interrogarsi, persino con animo inquisitorio, sul loro significato e, di conseguenza, sul valore stesso della comunicazione. Una lingua dunque smontata nelle sue forme più primitive e successivamente ricomposta, risciacquata da qualsiasi stereotipo sociale.
I protagonisti – impersonati da Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio, Francesco Borchi sono due anonime coppie inglesi, gli Smith e i Martin, rappresentati come gli archetipi della borghesia; parlano in un tipico salotto borghese, ma non comunicano, limitandosi a uno scambio di frasi banali e convenzionali, non pensano perché hanno perso la capacità di pensare, non esprimono emozioni e passioni, né le comunicano agli spettatori. Sono prigionieri del conformismo, simili ad automi viventi, senza alcuna sostanza psicologica. Il risultato è una situazione paradossale, comico-grottesca in cui i protagonisti dialogano sul nulla.
È interessante seguire la genesi di questo lavoro. Ionesco aveva deciso di imparare l’inglese; leggendo un manuale di conversazione rimase colpito dall’involontaria comicità dei dialoghi, rendendosi conto di avere davanti un testo quasi pronto, facilmente adattabile in chiave umoristica. La bizzarria del titolo suggerisce chissà quali significati simbolici; niente di tutto questo, fu solo il risultato del lapsus di un attore durante le prove.
L’enigmatica cantatrice calva che ha dato il titolo all’opera, disperatamente assente, costituisce una manifestazione supplementare dell’incoerenza; non facendo mai apparire la cantatrice calva, Ionesco fa la parodia di una tecnica destinata a creare il mistero attorno ad un personaggio che svolge tuttavia un ruolo importante nell’azione, anche se non svolge alcun ruolo. Una verità che si basa sull’assenza, una verità di cui non si sanno i contenuti ma se ne percepisce soltanto la forma esterna. Un’assenza che pretende di essere riconosciuta in quanto tale e talvolta ha una densità più forte del soggetto che la percepisce.
Dopo Finale di partita di Beckett il regista fiorentino è tornato con Ionesco ad indagare sulla parola messa in crisi, sulla parodizzazione del concetto di rappresentazione stessa. Massimo Castri e Marco Plini in quell’occasione avevano regalato sorprese riguardo alla tenuta scenica di questa vera e propria anti-commedia che dopo mezzo secolo pareva essersi perduta in un’illogica autoreferenzialità. Una commedia che nell’incomunicabilità dei suoi personaggi racchiude il senso più tragico della condizione umana: sull’assurdità delle conversazioni in atto si estende una patina d’angoscia latente, quasi a indicare l’orrore di un auto-isolamento. L’unica cosa che si percepisce davvero, in mezzo all’assurdità della situazione, è il vuoto.