Prendete un giovane biondo ed emaciato oppresso da una madre asfissiante e ossessiva, inseritelo in un contesto a dir poco particolare, composto da tipi strambi ai quali la macchina serve perché ci portano le donne ( e le donne, aggiungono, loro se le trombano), pittoreschi avventori di un circolino di periferia, felici di aver avuto ragione perché la loro tondeggiante figura trae origine da una brutta malattia e non da semplice adipe e, di conseguenza, presto saranno nel mondo dei più, ma anche bizzarri maschi alfa periferici ben decisi a vincere al totocalcio, o a spostare la chiesa o scappare in Perù, e scommetto che, specie se non siete più di primo pelo, sentirete un sussulto nostalgico salirvi lungo la schiena.
Sussulto che salirebbe al rango di scossa tellurica se vi rammentassi quattro sottoproletari vestiti da carpentieri, con cappellino di carta d’ordinanza, sbracati sul tetto del mostro di cemento che diverrà Pratilia, intenti a discutere su un debito di gioco che il più giovane e magro del gruppo, Mario Cioni, non è in grado di onorare al più anziano e corpulento Bozzone, il quale, come contropartita, chiede una notte di sesso con la madre del Cioni stesso. Quattro esseri abbrutiti senza arte né parte, prigionieri di un’esistenza disperata, unica speranza la rivoluzione, in attesa che Berlinguer dasse il via. Ed una bestemmia chilometrica per un fangoso sentiero di campagna, che provocò il sequestro della pellicola in diverse città per vilipendio alla religione.
Da Troisi a Verdone a Boldi, eredi dei Totò, Sordi o Pozzetto, il must imperante dell’epoca era che la comicità potesse parlare solo il dialetto napoletano o romano o milanese. Francesco Nuti e Roberto Benigni furono i leader dell’esilarante esercito (Paolo Hendel, Athina Cenci e Alessandro Benvenuti gli altri lanzichenecchi) che resettò tutti i canoni in vigore: la comicità toscana esisteva e reclamava spazio. Sottile piacere per la regione, in un paese che fa del campanilismo un vessillo da sventolare in ogni occasione, che diventava vero e proprio orgoglio per noi pratesi, viste le origini dei due.
Trentacinque anni dopo ( circa ) sappiamo come è finita.
Nuti ha spopolato per una decina di anni, sbancando il botteghino con costante regolarità, fino ad inciampare in quel kolossal incomprensibile e velleitario, Occhio Pinocchio, malinconico epitaffio di una carriera fin lì irresistibile, prima di cadere nel tunnel della depressione e le conseguenti vicissitudini che sappiamo. E’ un uomo sensibile, Francesco, ed è finito sbranato dalla tigre che nei primi anni era riuscito a cavalcare.
Benigni si è dosato con saggezza, pur senza girare film irresistibili, fino ad arrivare all’Oscar. Poi un paio di prove mediocri ed il progressivo abbandono del grande schermo per la TV. Anche nel suo caso Pinocchio ha avuto un ruolo determinante a scrivere la parola fine. Roberto però è riuscito a rimanere a galla: le ospitate televisive, gli esilaranti, pur ripetitivi, monologhi contro Berlusconi, la lettura di Dante e, prossimamente, i Dieci comandamenti, la luce dei riflettori è sempre accesa per lui.
Personalmente, essendo un suo fan della prima ora, mi astengo da ogni commento. Se non hai niente di bello da dire taci, recita un proverbio dei nativi Apache.
E cosa rimane? Rimane un sapore agrodolce, come queste serate autunnali. Agrodolce per tempi passati che riteniamo (forse a torto) migliori, per la gioventù che è svanita insieme ai nostri ideali, per due grandissimi artisti i quali, per motivazioni che più diverse non si può, non sono più in grado di regalarci emozioni.
La loro decadenza, in fondo, è andata di pari passo con quella della loro città, come una sorta di ritratto di Dorian Gray dove però invecchiano sia il quadro che la persona ritratta.
E infine rimane Giorgio Panariello, a tenere alto il vessillo della città laniera. Mala tempora…