E finalmente è arrivata, benedetta come la pioggia nel deserto, l’invasione di campo che fa scivolare in secondo piano Argentina-Svizzera, e Belgio-Usa (finite come da pronostico con la vittoria di Argentina e Belgio, ma come da leit motiv di questo torneo ai supplementari e soffrendo come bestie). E se del portiere americano Howard presto riparleremo, possiamo finalmente tirar fuori dal cassetto il pezzo sulle tre migliori invasioni di campo della storia del calcio, che tenevamo in serbo da tempo, dopo il gesto di Mario Superman Ferri che, dopo i mondiali del Sudafrica ha colpito di nuovo.
In occasione di Belgio-Usa, il “Falco” ha fatto irruzione in campo con la maglia con la S del più celebre dei supereroi, dedicata ai bambini delle favelas e a Ciro Esposito, l’ultras del Napoli deceduto in questi giorni. Il fatto che si metta sullo stesso piano un dramma sociale come quello delle favelas e la morte ancora tutta da chiarire di un ultras del Napoli al termine della sparatoria con ultras della Roma, fa capire lo stato confusionale che stiamo attraversando.
Noi che siamo romantici avremmo preferito un uomo o una donna nuda, magari qualche femen, e invece ci tocca accontentarci del solito esibizionista, con tanti precedenti di invasioni di campo alle spalle che gli son già costati carcere, arresti domiciliari e un articolo su Vanity Fair.
Esibizionista che, e ciò è alquanto sconcertante, ha il divieto di ingresso in qualsiasi stadio fino al 2018, ma che ha tenuto a dichiarare essersi procurato anche un pass per disabili per il quarto di finale Olanda Costa Rica.
Le “imprese” di Mario Ferri ricordano da vicino le gesta “eroiche” di Jaume Marquet Cot alias Jimmy Jump.
Un pazzoide catalano, che durante la finale dell’Europeo del 2004 in Portogallo, tra i padroni di casa e la vittoriosa Grecia, violò i sistemi di sicurezza riuscendo a entrare sul rettangolo di gioco e raggiungere la star lusitana Luis Figo per lanciargli in faccia la sciarpa del suo Barcellona, in segno di sfregio all’ex eroe considerato un traditore dopo il passaggio al Real Madrid.
Dopo aver gettato la sciarpa, rincorso come una lepre dagli steward buggerati come salami, andò a rifugiarsi in goal, rischiando di farsi parecchio male, contro la rete della porta.
Val la pena ricordare che l’episodio avvenne durante uno psicodramma collettivo, quello dei portoghesi, strasicuri di vincere l’Europeo giocato in casa, contro una Grecia la cui vittoria, alla vigilia del torneo, era data 100 a 1 dai bookmakers. Lo sguardo che gli lancia Figo, dopo lo sfregio, è tutto un programma.
Il gesto lo rese famoso, dando il via a una serie di vere e proprie performance, che lo hanno fatto diventare Jimmy Jump, il terrore di qualsiasi manifestazione sportiva. Dal calcio alla Formula 1, passando per il Rolland Garros, Jimmy Jump ha interrotto concerti arrivando a ballare in diretta su un palco, infiltrandosi durante una coreografia.
Ogni volta esibisce una maglietta a favore di una qualsiasi causa. Ma è la barrettina la sua vera cifra stilistica, ovvero il berretto rosso di lana catalano, che ogni volta cerca di infilare in testa a qualcuno. Nel 2010 tentò di infilarlo sulla coppa del mondo durante la cerimonia di inaugurazione, ma venne placcato a due passi dall’obiettivo. Poi tentò con Cristiano Ronaldo, ma senza riuscirci, infine con Aguero, durante la Coppa America del 2011, stavolta riuscendo nel proprio intento. Oltre al sito internet personale, esiste anche la pagina personale su Wikipedia.
Tornando ai mondiali, fece scalpore nel 1982 in Spagna un’invasione di campo di tutt’altro genere. Quella di Fahad, sceicco del Kuwait, che scese dagli spalti delle tribune dello stadio per convincere l’arbitro ad annullare la rete di Giresse, per il 4 a 1 dei transalpini.
Rete che aveva scatenato le proteste dei kuwaitiani che sostenevano di essersi fermati di schianto per avere sentito un fischio da parte del direttore di gara, il sovietico Miroslav Stupar, il quale negò di aver comandato l’interruzione del gioco.
Ciononostante Fahad Al-Ahmed Al-Jaber Al-Sabah, che non era un cammelliere pazzoide, come narrazione italica vorrebbe, ma il presidente della federazione calcistica kuwaitiana, minacciò il direttore di gara di ritirare la squadra dal torneo e di chissà cos’altro visto che, il pavido Stupar, tornò indietro sui suoi passi, annullando la rete di Giresse, nell’imbarazzo generale, per l’incazzatura del ct francese Hidalgo e lo sdegno degli sportivi di tutto il mondo.
Per la cronaca, la partita fini 5 a 1, Stupar vide finire la propria carriera arbitro, mentre Fahad tirerà il calzino, otto anni dopo, vittima della Prima Guerra del Golfo.
Non avvenne ai mondiali, ma ve la vogliamo lo stesso raccontare, quella che fu l’invasione di campo più romantica di sempre. Perché comunque è di Brasile che si parla e perché ha per protagonista, lui, il più grande di tutti, Pelè.
19 novembre 1969. Stadio Maracanà, Rio de Janeiro. Si affrontano il Vasco da Gama, squadra di casa, e il Santos, la squadra di Edson Arantes do Nascimento, al secolo Pelé, il più forte calciatore di tutti i tempi che si presenta a quel match dopo aver raggiunto quota 999 goal. Sul dato oggettivo è lecito sollevare qualche dubbio, in Brasile non esiste ancora un campionato nazionale e non è facile distinguere (e quindi tenere il conto delle reti) tra tornei ufficiali, partite amichevoli e partitelle d’allenamento. Ma i biografi di O’Rey così hanno deciso: a Pelé manca una sola rete per farne 1000, e lo stadio è stipato all’inverosimile solo per assistere a quell’evento.
Siamo sull’1 a 1 quando il direttore di gara assegna un rigore al Santos.
Si scatena il finimondo.
Non esistono più tifoserie, squadre, colori della pelle, stati o federazioni.
Esiste solo Pelé.
E allora tutti si raccolgono dietro la porta di Andrade, portiere argentino del Vasco da Gama che per tutta la partita ha fatto di tutto pur di non passare alla storia per un goal subito (anche se da parte di Pelé) e che se ora fa tanto di parare il rigore, rischia la gloria ma anche il linciaggio.
Passano cinque tumultuosi minuti prima che tutti si assiepino, prima che i fotografi abbiano preso posto, prima che l’arbitro fischi.
Pelé ammetterà che quello è stato l’unico momento della carriera in cui ha avuto paura, in cui le gambe gli hanno tremato. Cosa mai può succedere se sbaglio? Pensa dentro di sé. Ma poi prende una breve rincorsa e calcia la palle. Andrade intuisce la direzione e arriva a sfiorare la palla con la punta delle dita. Ma la palla entra in porta, lo stesso.
E’ il goal numero mille.
Per un attimo ci prova, Pelè. Va verso la porta raccoglie la palla, ma poi capisce che non è il caso. E allora bacia la sfera davanti ai tifosi che gli corrono incontro e lo sollevano portandolo in ostensione come una Madonna a una processione, e tutti piangono e tutti sono contenti, mentre sua maestà O’Rey, la “perla nera”, si lascia andare al sentimentalismo, “qualcuno pensi ai bambini – dirà al microfono – ai bambini poveri che sono stati meno fortunati di me”.
C’è chi dice la partita riprese, venti minuti dopo e senza Pelé. In molti sostengono invece che finì lì, venti minuti prima del tempo regolamentare, che tanto non aveva più senso per nessuno continuare a giocare.
A noi che non c’eravamo piace immaginare che andò proprio in questo modo. Con Pelé portato in trionfo dal Maracanà alle strade di Rio de Janeiro, dai quartieri più ricchi alle favelas, lanciando messaggi d’amore contro la fame, la guerra, la carestia e le cavallette e il venir meno delle mezze stagioni.
Tra lacrime di gioia e commozione di chi da quel giorno aveva qualcos’altro da raccontare al mondo, oltre alla propria miseria.
Aver visto Pelé segnare il goal numero 1000.
Al Maracanà.