“Come può giocare con la maglia della XY, non sono mica negri (o arabi) in XY”
Tra pochi giorni inizierà l’overdose calcistica della Coppa del Mondo. 60 milioni di italiani si trasformeranno in allenatori, opinionisti, esperti di calcio e quindi della vita: se vi capiterà di guardare una delle partite insieme a sconosciuti, magari davanti qualche maxi-schermo all’aperto, può ancora darsi, nell’anno del Signore 2014, che vi tocchi udire la simile grande verità di cui sopra. Ed è altrettanto probabile che possa essere forte la tentazione di rispondere “ma stai zitto razzista” o di imbastire una discussione attorno al concetto di spirito nazionale e cittadinanza, nell’epoca della globalizzazione.
Non lo fate, trattenete per un attimo il respiro, contate fino a dieci e pensate all’elenco che vi proponiamo.
1930, la prima edizione della Coppa Rimet viene vinta dall’Uruguay, la cui nazionale calcistica è specchio del paese, ovvero un mix di figli di immigrati per lo più italiani e spagnoli. Nel 1934 e (in misura minore) nel 1938, l’Italia di Vittorio Pozzo che canta il Piave negli spogliatoi prima del match per darsi la carica al motto di non passa lo straniero, scende in campo imbottita di argentini, secondo la formula degli oriundi (cittadini stranieri naturalizzati sulla base di almeno un genitore o un antenato nato in Italia e trasferitosi) costretti pateticamente al saluto romano prima del match come i compagni di squadra.
Nel 1950 rivince l’Uruguay, eroi dell’impresa (e marcatori della finale) sono Schiaffino e Ghiggia, che qualche anno più tardi faranno coppia (senza la stessa fortuna) nella Nazionale Italiana. Nel 1954 vince la Germania Ovest, squadra ariana in tutto e per tutto, ma che per avere la meglio degli “zingari comunisti” dell’imbattibile Ungheria di Puskas, è costretta dopare i propri calciatori come cavalli: finiranno tutti all’ospedale nel giro di pochi giorni, gialli in viso.
Nel 1958 e nel 1962 vince il Brasile, undici giocatori in campo, undici diverse sfumature di colore. Vale la pena ricordare che in Brasile, paese federalista e multietnico, i neri furono a lungo osteggiati a inizio secolo in nazionale come nella società. Tanto che Arthur Friedenreich, (giocatore che avrebbe, secondo dati non ufficiali, segnato più reti di Pelé), di padre tedesco e madre afro brasiliana, prima di scendere in campo si lisciava i capelli crespi per sembrare più bianco possibile.
Sì, okay, nel 1966 vince l’Inghilterra, ma già nel 1970 rivince il multietnico Brasile di Pelè. Il 1974 la Germania Ovest vince il suo secondo titolo ma nel 1978 l’Argentina vince i “mondiali della vergogna” organizzati dal dittatore Videla, grazie ai goal di Mario Kempes, il cui vero nome era Quemp e il cui padre era un tedesco imbarcatosi verso l’Argentina alla ricerca di fortuna. Erano invece di Catania i discendenti di Daniel Passarella, capitano e uomo simbolo di quella nazionale per volontà del regime fascista. Nel 1982 torna al successo l’Italia, che ormai da fine anni Sessanta ha deciso di smettere con gli oriundi, ma se si va a vedere bene in panchina tiene il giovane Pietro Vierchowod, figlio di un ex militare ucraino dell’Armata Rossa, fatto prigioniero in Italia, dove deciderà di restare a fine della guerra.
Nel 1986 trionfa l’Argentina di Maradona, padre di origini italiane, madre addirittura dalmata. Il primo goal della finale nasce da un suo assist per il difensore Brown, di origini irlandesi. La squadra, allenata da Bilardo, che ha babbo e mamma di Caltanisetta, vanta cognomi come Ruggeri, Giusti, Batista e soprattutto il mitico Cuciuffo, dei quali non serve specificare la provenienza linguistica.
Nel 1990 vince il suo terzo titolo la Germania ancora formalmente Ovest, ma nel 1994 è di nuovo la volta del Brasile e guardate Claudio Taffarel e Aldair per capire tutti i colori del successo brasiliano.
Ma è il 1998 l’anno in cui tutto il mondo comprende che multietnico è bello e soprattutto vincente, perché se in Sudamerica il meticciato sociale è regola oramai da secoli, la Francia sciovinista, coglie il suo primo alloro mondiale con una formazione composta da calciatori nati o originari della Guadalupe (Thuram, Henry con madre martinicana), Guyana Francese (Lama), Nuova Caledonia (Karembeu), Ghana (Desally), Senegal (Vieira), Armenia (Djorkaeff), Argentina (Trezeguet), Paesi Baschi (Lizarazu) e addirittura Italia (Candela). Ma soprattuto il suo uomo simbolo, il più forte calciatore francese di tutti i tempi, forse anche di Platini, è Zinedine Zidane. Un algerino!
Ricordiamo anche che dieci anni prima, l’Olanda, aveva finalmente vinto un trofeo internazionale: l’Europeo, grazie al contributo dei giocatori originari del Suriname come i milanisti Gullit e Rijkaard e con in panchina quell’Aron Winter che, approdando alla Lazio, i primi giorni avrà paura di uscire di casa (poi diventerà un idolo) lui che oltre ad essere nero era pure ebreo, dopo aver letto su un muro, appena arrivato a Roma, un gigantesco Winter Raus!.
Si potrebbe contestare che aver naturalizzato giocatori originari delle ex colonie abbia mantenuto una forma di colonialismo sportivo, impedendo ai movimenti calcistici locali di svilupparsi, depredando di fatto risorse economiche umane, ma questo ragionamento retrò non tiene conto di una realtà che ormai è di fatto e soprattutto che Zidane è un eroe tanto per gli algerini quanto per i francesi, un simbolo di riscatto per il popolo delle banlieu (specie dopo la testata a Materazzi nella finale del 2006). Allo stesso modo in cui campioni come Thuram e Gullit, sono stati icone della lotta al razzismo. In particolare il tulipano nero fece clamore quando nel 1987, un anno prima il titolo europeo, star assoluta del Milan berlusconiano, vincendo il Pallone d’Oro, al momento della consegna dedicò il trofeo a Nelson Mandela, ancora in carcere.
Ripercussioni politiche ebbe, ovviamente, anche la scelta del ct transalpino Aimè (di dichiarate simpatie politiche di sinistra), che propose una nazionale multietnica, negli anni dell’ascesa di Le Pen padre, che con il suo Front National va al ballottaggio alle elezioni presidenziali, arrivando avanti ai socialisti di Jospin. La storia spesso si ripete. Ma anche i più sciovinisti dei francesi si son dovuto arrendere alla realtà: multietnico è vincente.
Ma torniamo alla storia calcistica. Nel 2002 il Brasile vince il suo quinto titolo, nel 2006 l’Italia il suo quarto e lo fa dopo una decisione storica: quella di riaprire le porte agli oriundi. Colonna portante del centrocampo azzurro è Camoranesi, argentino con un nonno italiano, che a differenza dei campioni degli anni Trenta manco ci prova a passar per italiano: “Io sono argentino, il vostro inno non lo canto” dirà in merito alla polemica dei calciatori che non cantano Fratelli d’Italia prima delle gare.
Infine la Spagna che vince nel 2010 il primo mondiale con tutti calciatori spagnoli, se questo termine ha un senso, visto che nella Nazionale del paese delle autonomie e delle rivendicazioni indipendentiste diffuse, molti dei suoi calciatori hanno giocato ognuno anche con la propria nazionale indipendentista di riferimento: basca, catalana e asturiana.
Nel 2014, in Brasile le nazionali europee si presenteranno con squadre sempre più multietniche.
Se per Francia, Olanda, Portogallo, Inghilterra, Belgio non è certo una novità, fa ancora sensazione la Germania che, sotto la gestione di Löw, riproporrà una squadra di calciatori di origine turca, tunisina, polacca, ghanese, nigeriana. E sarebbe veramente incredibile un’eventuale Germania vs Ghana, in quel caso potremmo assistere alla sfida tra i due fratelli Boateng: Jerom con la maglia tedesca, Kevin Prince (quello ex Milan che uscì dal campo per i bu razzisti) con quella ghanese.
Anche l’Italia farà la sua parte, con il nuovo italiano Balotelli (e poteva esserci anche il “nigeriano” Ogbonna e l’italo egiziano El Shaarawy), gli oriundi Paletta (Argentina, ma poteva esserci anche Icardi) e Thiago Motta (Brasile). Merita una citazione il caso di Okaka, giovane talento che si sta ritrovando nella Samp dopo un periodo di smarrimento, a cui la Nigeria aveva chiesto di partecipare ai Mondiali. “Non lo so, io sono nato e cresciuto in Italia”, il suo tergiversare per amore del paese che ha ospitato i genitori, e il suo sogno di vestire un giorno la maglia azzurra (per ora improbabile) ha convinto l’allenatore della Nigeria a non convocarlo.
Pertanto, tra pochi giorni quando inizierà la Coppa del Mondo e sessanta milioni di italiani si trasformeranno in allenatori, opinionisti, esperti di calcio e della vita, se vi capiterà di guardare una partita in pubblico e sentire la solita frase del “come può giocare con la maglia di XY, non sono mica negri (o arabi) in XY…”, non state a perdere tempo dandogli del razzista o ad imbastire una discussione attorno al concetto di spirito nazionale e cittadinanza nell’epoca della globalizzazione. Trattenete il respiro per dieci secondi. Ripensate all’elenco di cui sopra e poi voltatevi di due terzi nella sua direzione e con uno sguardo carico di disprezzo ditegli “certo che tu non conosci proprio niente della storia del calcio e dei mondiali”.
Ci sta che si senta più offeso.