Il Vermouth di Prato, frutto di una tradizione secolare, è uno dei prodotti più ignorati di questa città. Nonostante abbia tutti i numeri per essere un fiore all’occhiello su cui puntare e di cui andar fieri, per cinquant’anni non ne è stata prodotta nemmeno una goccia. Dal dopoguerra in poi, infatti, Prato si è tuffata nel tessile e, distratta dalla corsa all’oro, ha puntato tutto su quello, dimenticando il resto.
Eppure, documenti storici lo vogliono risalente al 1750, addirittura antecedente alla produzione piemontese che su questo liquore ha creato un impero. “Noi pratesi, in altre faccende affaccendati, abbiamo lasciato che cadesse nel dimenticatoio. Poi, nel 1999, io e mia moglie abbiamo aperto questa piccola azienda artigianale”. Fabio Goti, tavolese da generazioni, e Cristina Pagliai, sua dirimpettaia da quando erano bambini, non hanno dubbi. “Lo facciamo con passione e tanta fatica, ma convinti che sia un prodotto inimitabile, degno dei più grandi prodotti toscani”. Li incontriamo nella loro piccola azienda, nel cuore di Tavola, la Numquam. I profumi di spezie e buone cose è ovunque. E le foto in bianco e nero di robusti giovanotti d’altri tempi ci raccontano come la ricetta di questo elisir si perda nella notte dei tempi.
“Devo tutto ai miei nonni contadini. È da loro che ho imparato ad addentrarmi in queste alchimie. Chiunque lavorasse la terra, allora, aveva la ricettina del vermouth – ci racconta, mostrandoci il laboratorio -. Qualunque contadino della zona, durante la vendemmia, se lo faceva. E questi profumi, questi sapori mi sono rimasti dentro sempre. Il passo di aprire il laboratorio ha fatto il resto. C’è voluto del tempo e molta pazienza, visti i vincoli burocratici, ma la soddisfazione ci sta ripagando di tutto. Nonostante gli otto registri mensili da aggiornare, le continue comunicazioni da fare sulle quantità di liquori in magazzino, nonostante i continui controlli che siamo costretti a subire, devo proprio dire che è il lavoro della mia vita”.
All’inizio Goti è andato avanti a passi piccoli, seguendo i ricordi del nonno e la ricetta codificata dall’Arsia Toscana. Poi ha trovato gli equilibri giusti e ora ha una ricetta tutta sua che tiene segretissima. “Mi sono mosso spinto anche da una questione di orgoglio cittadino e finora resto l’unico produttore artigianale del Vermouth di Prato – racconta -. Si tratta di un prodotto di nicchia, per appassionati, ma sta diventando pian piano sempre più noto”.
È un liquore che deve avere minimo 15 gradi e che dipende da una lunga macerazione di spezie e di scorze di agrumi in vino. “Circa una decina di giorni – riprende – ma il periodo va in base alla stagione: più è caldo e più le essenze vengono cedute meglio. D’inverno, invece, bisogna rimontare manualmente molto spesso, affinché le spezie vadano a contatto meglio col vino. Cosa vuol dire rimontare? Mescolare con un bastone di ferro. In media facciamo tre o quattro rimontaggi al giorno, perché gli oli essenziali devono cedere al vino. È lì il segreto”.
E il nome? “Vermouth è assenzio in tedesco. Ed è infatti l’assenzio l’ingrediente fondamentale. Senza assenzio non c’è vermouth”. E sì l’assenzio, ossia l’artemisia, la pianta dei poeti maledetti, usata per ispirarsi, per raggiungere l’ascesi mistica. Ma attenzione, qui non c’è niente di maledetto. “Una giusta dose d’assenzio è tutto, perché essendo un’erba molto amara si rischia di sciupare l’intero prodotto. Raggiungere l’equilibrio fra spezie, scorze, profumi e sapori è la sfida. E mentre ai tempi del nonno veniva prodotto partendo dal mosto – tanto che si produceva solo nel periodo della vendemmia – adesso lo si ottiene dal vino e quindi si produce tutto l’anno”.
E tutto l’anno il profumato Vermouth pratese se la deve battere con i cugini piemontesi. “He sì… e mica accettano il fatto che il nostro sia più vecchio del loro. È poco dopo il 1760 che Carpano codificò la ricetta piemontese mettendo le basi per quello che ora è diventato l’impero del vermouth italiano. Da allora è iniziata un’esportazione senza pari: Martini, Cinzano… i fiori all’occhiello dei liquori italiani”.
Ma perché Prato ha il suo Vermouth? “Per via della sua tradizione mercantile – riprende Goti -. Da qui passavano spezie da ogni dove e l’ingegno umano ha fatto il resto. Ed è infatti Prato la vera madre del Vermouth, checché ne dicano a Torino”. Una vera e propria risorsa in potenza dunque. Eppure i pratesi lo conoscono poco e poco lo apprezzano. “Il mercato più grande è fuori Prato. Da Capri a Firenze, a Milano. La nostra è una clientela di gusto, che cerca qualcosa di diverso da sorseggiare. Il nostro liquore è un ottimo aperitivo se servito fresco, ma è buono anche come digestivo. Perfetto se unito ai biscottini di Prato o agli amaretti del Fochi di Carmignano. L’amaro della mandorla ne esalta il sapore e si sposa da dio”. Per trovarlo nei dintorni occorre andare nel negozio della Provincia o in qualche enoteca o negozio ricercato. “Che dire? Noi pratesi siamo un po’ difficili, molto individualisti e diffidenti. E questo ci ha portato sempre a brutte conseguenze. La nostra ritrosia a fare gruppo è una delle maggiori cause del fallimento del tessile. L’individualismo pratese ammazza. Si pensa di essere sempre i più furbi, ma tanto c’è sempre chi è più furbo di noi. Invece, la tradizione vermouthistica torinese insegna. Hanno difeso a spada tratta il loro prodotto, sostenendosi l’un l’altro, tenendosi stretto il prestigio e i tanti posti di lavoro che ha creato. È chiaro che se dipendiamo tutti dalla medesima risorsa, una volta esaurita, è finita per tutti. Diversificare è la salvezza. E il vermouth sarebbe stata una buona alternativa su cui puntare, tutti insieme”.
E invece Fabio e Cristina sono ancora soli. “Senza altri produttori non è nemmeno possibile fare un gpdop, come invece stanno facendo per la mortadella di Prato o hanno fatto per l’olio di Carmignano o i fichi secchi. E neanche Slow Food ha potuto farci un presidio. Ci si muove con Divini Profumi, ma anche questa iniziativa chissà che fine farà ora che la Provincia scomparirà. Noi abbiamo tutto: ricchezze, bellezze, inventiva, ma ci manca l’esperienza e l’iniziativa per promuoverle. Forse non ci crediamo o forse non ci fidiamo. Ma solo l’unione fa la forza e ogni giorno me ne accorgo sempre di più”.