Alla conoscenza di Calogero, trentenne mai toccato dalla necessità di dovere crescere, non possiamo non notare la sua somiglianza con il Barone Rampante di Italo Calvino: anche lui vive “A un passo dal cielo”, lontano dalla società che lo ha ferito. Eppure la storia di Calo’ – che divide le giornate con una marionetta a forma di Pinocchio che lui chiama Gino – non è una storia di ribellione, ma di morte. Il suo isolamento, il suo abbandono della società, lo si deve alla barbarie della mafia, che, nel giorno del suo dodicesimo compleanno, ha ucciso suo padre e sua madre.
E così questo sangue gli nega la possibilità di crescere, lo macchia di una colpa non sua ma di cui dovrà scontare una pena amara. Una storia intima, personalissima, quella raccontata da Aldo Rapè al Fabbrichino di Prato in “Ad un passo dal cielo (W la mafia)”, per la regia di Nicola Vero e la produzione di PrimaQuinta Teatro. Uno spettacolo che, nelle sue 500 repliche dal 2005 ad oggi, ha portato la storia di Calogero – il giovane pazzo a cui la mafia ha negato la possibilità di essere adulto – in giro per teatri, scuole, chiese e piazze. Una storia che nasce da un evento banale, una frase pronunciata da una vecchia signora catanese ad un Aldo Rapè allora sedicenne: “Le esperienze che viviamo da bambini ci segnano per tutta la vita”. Una frase come tante, detta però in un giorno unico: il 19 luglio 1992, data dell’attentato al giudice Paolo Borsellino.
Il folle Calogero ha il potere di impersonare tutta la rabbia, la tristezza e il rancore dei parenti delle vittime uccise dalla mafia: nasce una storia delicata, plasmata con maestria, toccante. Certo non troppo originale, ma qui l’originalità non c’entra: sul palco assieme ad Aldo Rapè ci sono tutti i morti ammazzati nel corso dei decenni da un’organizzazione criminale che è il cancro dell’Italia. E che è giunto il momento di sradicare, con brutalità, anche con la cultura, un’arma discreta e roboante che ci salva dalla pochezza. Un urlo nel buio che tocca il cuore.