L’orchidea, un fiore che parla di bellezza e di morte, omogeneo nella sua disomogeneità. Una mirabile creazione della natura eterna, un esemplare bello e insieme malvagio, “perché non riconosci quello che è vero da quello che è finto”. Un fiore che profuma di una madre lontana, ritrovata e poi persa nei gangli inconoscibili ma inesorabili dell’eternità: tutto questo nel piatto di Pippo Delbono, fino a domenica al Fabbricone con “Orchidee”, pièce che riporta a Prato la compagnia dell’attore e regista di Varazze, per la produzione della Fondazione Teatro Emilia Romagna.
Una ridda di emozioni amare, difficilissime da digerire, propinate con quel modo di far teatro tipico del genio di Delbono, che si muove con disinvoltura tra danza, declamazione, musica e cinema. Immagini di una potenza devastante accompagnano la narrazione mai banale e le citazioni da Shakespeare, Cechov, Kerouac e molti altri (forse troppi). E ancora, abili pennellate sulla scena da Manet, Monet, Velasquez fino a “La danza” di Henri Matisse, rievocata da nudi delicati e perfettamente concertati che volteggiano sulla scena, fino a disperdersi.
In questa messinscena c’è tanto – direte voi – forse tutto. E invece no. La speranza di Delbono è solo quella di fermare il tempo. Confuso, perduto, abbandonato. Questo spettacolo è il tentativo di far ruggire il mondo di fronte a quelli che lo vivono ogni giorno: e allora Bobò, il malato mentale di 76 anni vissuto per 45 in un manicomio, o la giovane ospite di Christiania a Copenhagen sono lo specchio di una identità nascosta sotto il tappeto per troppo tempo.
Non è una pièce che parla della vita, ma che parla vita. I cuori degli spettatori ieri sono stati graffiati, sfatti, malmenati. Fino al momento finale, con il video degli ultimi respiri della madre di Pippo Delbono (e su questo il teatro DEVE riflettere, perché mai la morte era stata messa in scena in maniera così feroce, così vera). Ecco la mancanza dell’esistenza, la corsa asfittica per cercare di raggiungere qualcosa o qualcuno, la paura di non riuscire a colmare i nostri piccoli momenti quotidiani.
Per una volta il teatro cerca di non essere menzogna. E ci travolge, con un vuoto che sentiamo tanto nostro. E che ci fa paura.