Un teatro che morde l’anima, quello di Ettore Petrolini. Un teatro che sa di passione e di sangue, come il vino delle osterie di quella Roma un po’ barocca e immortale che Gadda ci ha descritto così bene nel “Pasticciaccio”.
Tutto questo sulla scena del teatro Fabbricone di via Targetti, che ci offre fino a domenica “Il Padiglione delle meraviglie”, dramma di Petrolini del 1924, rivisto e corretto dalle abili mani di Massimo Verdastro (che ha curato anche la regia) ed Elio Pecora.
Siamo nella Capitale, negli anni Venti, in una piazza pubblica in cui si ritrovavano attori e saltimbanchi con i loro baracconi, detti “delle meraviglie”. Tra questi, il padiglione di Lalli e Zenaide (Emanuele Carucci Viterbi e Gloria Liberati), che gestiscono uno stuolo di fenomeni da circo: Amalù, il selvaggio antropofago del Mazzabubbù (Giuseppe Sangiorgi), Elvira la sirena (Manuela Kustermann), Tiberio l’imbonitore (interpretato dallo stesso Verdastro) e Il Tigre, potente lottatore (Luigi Pisani).
Proprio la tensione tra questi ultimi due personaggi trascina la piéce: Tiberio, ormai vecchio e malandato, ha perso l’amore della bella Elvira, che è corsa tra le braccia del forte Tigre. Lo stereotipo della bestialità e della spacconeria, ma il vero protagonista del padiglione del signor Lalli, che organizza per tutti gli spettatori una lotta greco romana contro il suo campione: chiunque fosse riuscito a stendere l’indomito lottatore avrebbe avuto cinquecento lire in premio. Consumato dall’amore e senza nessun controllo, Tiberio è il primo a sfidare il Tigre, deciso a riconquistare Elvira con questo gesto; dopo una sfida patetica, con gli ultimi scampoli della sua forza, riesce a batterlo e a riconquistare, forse, la sua sirena.
E noi con lui, spinti in quel “cerchio in cui la ragione non ha valore e l’inganno è un gioco” che è il Padiglione delle Meraviglie di Verdastro – autore di interessanti inserti, che rendono la messinscena ancor più immaginifica. Un mondo lontano e inaccessibile, che possiamo solo immaginare, ma mai comprendere. Una chiave che ci aiuta ad aprire il nostro cuore: come Tiberio, cadiamo e ci umiliamo per non farci soffocare dalla nostra stessa umiltà. Le scene di quel padiglione dipingono la dimensione umana più nascosta; quelle luci e quei suoni riecheggiano nella nostra anima e ci sono familiari.
Tristemente familiari, perché svelano la nostra caratteristica più irrivelabile: “siamo tutti doppi e tripli – ci accusa la Kusterman sul finale – e chissà quanto altro. Nemmeno maschere, ma figure in movimento”. Uno spettacolo da vedere, che insieme ci addita e ci tende la mano.