Il film della settimana – e non solo per i truzzi – è CAPTAIN PHILLIPS – ATTACCO IN MARE APERTO. Nonostante Tom Hanks, che non sopportiamo. Ma al timone c’è Paul Greengrass che si sta imponendo come miglior regista “action” sulla piazza dopo The Bourne Supremacy, United 93 e The Bourne Ultimatum. Macchina a mano impazzita, senso del ritmo, capacità di reggere la tensione per le due ore standard del cinema hollywodiano. La nuova prova è la storia vera e movimentata del dirottamento di una nave mercantile statunitense per mano di quattro pirati somali, e la cattura in ostaggio del capitano Richard Phillips. Dirottamento passato alla storia come il primo ai danni di una nave da carico statunitense in duecento anni di storia navale. Il sottotesto umanitario – lo scontro tra l’Occidente e la povertà del popolo somalo – lo renderà appetibile anche per un pubblico non amante del genere.
E’ lo sbarco in Normandia della cinematografia italiana, un evento di portata epocale, un’invasione. Arriva in quasi 1300 (!) sale, 400 in più di un qualsiasi Signore degli Anelli il nuovo film di Checco Zalone, SOLE A CATINELLE. Sgombriamo gli equivoci: non abbiamo paura dello snobismo. Per paura di essere snob e di non saper “comprendere i gusti popolari” i critici italiani hanno accolto favorevolmente le precedenti prove di Zalone. Persino il sempre più anziano Mereghetti che sul celebre dizionario li tratta molto meglio di Steve Zissou. Ma si sa l’idea di una “comicità non volgare” aveva salvato dal massacro critico anche il primo Pieraccioni, che poi si è dimostrato il nulla che era. Quindi togliamoci il dente. Punto uno: i film di Checco Zalone non sono cinema e forse non sono nemmeno film. Il primo era cinematograficamente al livello di un sottoprodotto pugliese, al di sotto della filmografia di Jerry Calà regista per intenderci; al terzo film ci si avvicina alla dignità di una fiction di Canale 5, ma non siamo comunque ai livelli di un qualsiasi film di Franco e Ciccio. Secondo punto: si sono usati per Checco Zalone paragoni con Sordi o Totò. Facciamo chiarezza: Zalone non è nemmeno un attore. Possiamo accettare che se ne parli come “maschera”, ma non è capace di reggere il cinema oltre il primo piano di un campo e controcampo, mentre le “maschere” del nostro cinema, fossero un Sordi, un Totò, un Franco e Ciccio, un Verdone o un Benigni sono sempre state capaci di trasformare un campo lungo di due minuti in cinema, pure nei reciproci filmacci. Terzo punto: Zalone non è “se stesso”. Chi ha messo in giro ‘sta voce?
Non è il grullo che fa credere di essere né l’italiano medio con cui milioni di italiani medi si identificano nel rigetto degli stilemi culturali, delle ideologie, del “buon gusto” e delle convenzioni. Checco Zalone è un furbo, un avvocato intelligente e spregiudicato come Ghedini che si è inventato un personaggio efficace. Recita costantemente e non essendo un grande attore la sua recitazione è palesata, brechtianamente, è un continuo ammiccamento al pubblico, con gli occhi, dietro il volto impassibile. E’ la sublimazione del tormentone di Zelig trasportata al cinema (senza il “medium” cinema). Quarto: le canzoni di Zalone, terribili pure quando tentano di sublimare modelli bassi, affosserebbero qualsiasi film si voglia considerare tale.
Sgombrato il campo dagli equivoci e facendo finta di non essere dei pasdaran che si indignano per l’invasione dell’ennesimo non-film nelle sale mentre non escono ormai d’abitudine i film di Jim Jarmusch o Todd Solondz, possiamo serenamente discutere se Sole a Catinelle faccia ridere.
Si ride di più rispetto ai due precedenti ed è già qualcosa. C’è un ragazzino, che è il primo passo verso il declino pieraccioniano dopo le bellone esotiche, ma il rapporto padre-figlio è abbastanza politically-uncorrect da divertire. Poi ovviamente arriva anche la bellona esotica, meno esuberante rispetto alle tettone pieraccioniane, “mai volgare” pure quella come nei precedenti film, la francesina Aurore Erguy. Il resto è pilota automatico e gag di seconda mano sullo zotico alle prese con ricchi e radical chic.
Roba che potete tranquillamente vedere sul divano di casa vostra o in uno dei tanti formati assurdi in cui è costretto il cinema vero per sopravvivere.
E a proposito di cinema italiano e di strategie distribuite folli non esce a Prato ZORAN, gradevole commedia che tenta una via originale alla Wes Anderson con Battiston che fa l’alcolista nel nord-est italiano, mentre trova spazio nelle sale pratesi il terribile UN CASTELLO IN ITALIA della ormai francese d’adozione Valeria Bruni Tedeschi. Che è un po’ la rappresentazione in chiave borghese e compiaciuta dell’umanità puzzona radical chic che Zalone attacca. Interni, tanti interni, un malato d’Aids, Louis Garrell, il desiderio di gravidanza di una ultraquarantenne, la”giusta” misura tra dramma e commedia, battute scrittissime che vorrebbero essere sentenze scolpite nell’aria. Due palle!
ENDER’S GAME è un film distopico e angosciante come tutti i film distopici, tratto da un romanzo di culto per gli appassionati del genere, ambientato in un futuro in cui l’umanità è attaccata da una specie aliena di formiche. Questo lo rende inappetibile per qualsiasi amante del realismo e per gli entomofobici. Un ragazzino, Ender, è combattuto tra la sua indole buona e la Società che sta formando in una scuola generali militari senza pietà pronti a sterminare formiche Nel cast Harrison Ford e il bambino dagli occhi assurdi protagonista di Hugo Cabret. . Il regista è specializzato in cazzatoni tipo Wolverine.
Arriva anche un horror indipendente americano, ma si chiama SMILEY e un titolo del genere non merita la vostra attenzione.