Spelling personale di un mese in Italia #2
(per un enciclopedismo attivo)
A.D. 2013, dopo quasi otto anni che non trascorrevo più di 20 giorni là
(qui la prima parte)
O – Odissea: è il viaggiare per il mar mediterraneo dopo una lunga assenza da casa, cercando la strada per il ritorno a casa. Deviazioni di rotta, incontri terribili, lotta contro il mare assassino. Il protagonista dell’odissea è un eroe, che da un lido all’altro dei suoi naufragi, raccontando le sue storie, tesse una rete di conoscenza, tra popoli che mai avrebbero saputo gli uni degli altri, delle guerre degli altri, delle divinità degli altri, degli amori. Se non vi tormenta abbastanza dover rispondere della morte, considerate la vostra ignoranza. Ricordatevi che l’olocausto, cui dedichiamo una giornata di memoria ogni anno, fu possibile grazie ad un insieme di leggi, votate da un parlamento sovrano, volte a tutelare gli interessi e la sicurezza dello stato. La bossi-fini è una legge nazista.
P – Parlare: verba volant, e chissà dove vanno a finire. Magari davvero entrano nei venti, magari l’emissione di anidride cabonica viene assorbita dalle piante. In Italia, a differenza di tutto il mondo, si poteva parlare con gli sconosciuti. Dico al passato perchè non è il mio presente. Ma l’impressione è che, eccetto al Sud, sembra sempre più strano rivolgersi a uno sconosciuto per fare due chiacchiere alla fermata del bus, o commentare qualcosa con un giornalaio o con un barista. Per non parlare poi delle serate: ho assistito a raggruppamenti di conoscenti che occupavano zone dei locali, senza neanche uno scambio di battute con gli altri. È il concetto di cerchia: a me suona molto medievale.
Q – Quaquaraquà: un termine conosciuto ma sui cui ho riflettuto solo di recente. Il quaquaraquà è colui che parla, anche accesamente, dei misfatti e delle ingiustizie altrui, ma quando si trova di fronte il farabutto oggetto dei suoi attacchi, oppure nella situazione di scegliere lui stesso sul fare o meno una cosa, allora sta zitto e fa la stessa cosa che aveva criticato.
R – Resilienza: se ne fa un gran parlare, come qualità, e io non lo metto in discussione, soprattutto dopo che il termine è stato adottato anche dai cattolici mariani e diaconali consacrati a Nostra Signora della Tenda (quella di Piero Della Francesca?) quando hanno voluto superare lo shock della vacanza del soglio pontificio dopo le dimissioni di Ratzinger, la più illustre vittima della crisi economica mondiale. Tra l’altro, la resilienza è anche alla base dell’ “Ipotesi di Gaia” di cui sono un’ammiratore. Mi sembra opportuno ricordare in questa sede anche l’etimologia del termine: dal latino resilire che significa: “saltare indietro, rimbalzare”.
S – Stilnovo: piccola introduzione: a questa lettera avevo scritto, nei primi appunti socialdemocrazia chiedendomi perchè fosse sparita completamente come opzione politica, eccetto emuli nominali. Successivamente, avevo scritto stelle intendendo non quelle di Dante che chiudono ogni cantica della Commedia, ma (purtroppo) le cinque del movimento di Grillo-Casaleggio, che scritti così sembrano un duo di autori per Sanremo, ai quali ascrivo il merito di essere riusciti in quello che neanche Berlusconi aveva ottenuto: imbrigliare il dissenso, gestirlo capillarmente e verticalmente, arrivando spesso a sdoganare la stupidità. Alla fine, Dante ha vinto, ed ecco stilnovo, che per me rimane la prima vera avanguardia della cultura mondiale, al cui pensiero mi sento ancora protetto, rassicurato sulle potenzialità del genere umano.
T – Teatro: ho incontrato un conoscente qualche tempo fa, e mi ha chiesto: -ma è vero che sei in Macedonia a fare teatro?- e io ho risposto: -Sì, sono regista teatrale – lui ha notato, non senza una punta di critica alla mia vanità, che ho detto “sono” e non “faccio”. Non sono riuscito a convincerlo che si è trattato di un errore di traduzione dal macedone, perchè quasi mai mi è stato chiesto in lingua italiana di cosa mi occupi. Adesso, mi sorprende e fa pensare davvero l’aver definito il teatro la mia identità. Razionalmente ho sempre detto, e ripeto, che è il mio lavoro, e come ogni lavoratore mi alzo la mattina, bevo il caffè, faccio colazione e mi lavo i denti, e poi comincio a lavorae per il tetro, vuoi le prove, vuoi le letture, vuoi le riunioni. Minimo 8 ore al giorno. Tuttavia, non sono un lavoratore dipendente, quindi non mi supporta nessun vincolo di cultura aziendale o di retribuzione. A me il teatro mi ha salvato la vita almeno 3 volte, è giusto che se la prenda. Qualsiasi cosa ciò voglia dire.
U – Utopia: ma rovesciata. Quello che mi disturba di più del mondo che ho visto di recente, è il rovesciamento dell’utopia: la tecnologia che ci è sembrata schiudere le porte del sapere universale, ci ha invece rinchiuso in percorsi usitati, in comunicazioni organizzate e controllate, nella paura di osare. Non abbiamo raggiunto niente, siamo semplicemente raggiungibili sempre. Utopia è anche il titolo di una serie televisiva di channel 4 che in Italia temo non mostreranno mai, non sia mai ci si risvegli il dubbio filosofico.
V – Venezia: per noi che stiamo in cima al Balkan, è La Mecca. Da qualche anno poi, vado a visitare la Biennale d’Arte Contemporanea, dove mi sorprende sempre di più l’attegiamento di dedizione alla subcultura e alla controcultura di gran parte delle nazioni, Italia esclusa ovviamente. Di questa edizione mi ricorderò senza dubbio del Venezuela, altro nome idoneo a questa voce. Il curatore, Juan Calzadilla, ha intitolato il padiglione “El arte urbano. Una estética de la subversiòn”. In barba all’idea, diffusa, di cultura cittadina come cultura di main-stream e jet-set. Non venite qui a dirmi che tra urbano e cittadino c’è differenza, abbiamo una volta il coraggio di farci scomodare.
Z – Zhivot pod kirija: che in macedone significa: “vita in affitto” (“Jete me Qira” in albanese): è il titolo dello spettacolo che ho diretto al Teatro Albanese di Skopje per il Festival di Ocrida del 2013. Come espressione, la definisco lo stilema della condizione di vivere che ho respirato intorno a me. Una delle prime feste che ho organizzato con gli amici della parrocchia era intitolata “la vita è quel che ci metti dentro”: speriamo torni utile a qualche banda di quattordicenni.