Per arrivare a Pechino ci vogliono circa 14 ore di volo. La prima volta ho fatto scalo a Francoforte. Sono partito da Firenze alle 13:15 di Giovedì 27 Settembre e sono arrivato la mattina dopo a Pechino alle 8:30. Nel frattempo avevo attraversato diversi fusi orari e visto una decina di blockbuster di dubbia qualità sullo schermo piantato nello schienale del sedile di fronte a me.
La prima riflessione su Pechino non può che partire dall’inizio: dal viaggio. Siamo ormai abituati a viaggi che non durano più di due o tre ore. In aereo dall’Italia puoi visitare ogni paese europeo senza volare per più di quattro ore. Se per andare a Parigi col treno ci volevano 11 ore nessuno ormai pensa di impiegare più di due ore per andare a visitare la Tour Eiffel. Luoghi che ancora trent’anni fa richiedevano una pianificazione di tempi e di finanze attenta adesso sono semplicemente a portata di weekend, come una volta potevano essere Roma o Siena.
La nostra cartina geografica si è allargata, ma più che essersi definita uniformemente si è cosparsa di macchie (spesso coincidenti con gli scali Ryanair), come un puzzle in negativo in cui invece di rimanere qualche casella vuota abbiamo tutti le stesse tessere isolate. Pochi possono ricomporre il tessuto che le circonda.
Pechino, a dispetto dei voli low cost e della globalizzazione, resta una mèta lontana. Lo senti addosso quando scendi dall’aereo. Lo senti se fai scalo a Mosca: ti sembra di aver fatto già tanta strada e invece ancora ti mancano 10 ore di viaggio. Pechino è lontana. Se inizialmente ci pensano le 14 ore di volo a fartelo capire dopo saranno tutta una serie infinita di dettagli, di sensazioni, di sapori e di odori che ogni giorno ti accompagneranno a ricordartelo. E se spesso può essere difficile da accettare rimane però affascinante e avvincente.
Atterrato a Pechino al T3, il terminal progettato da Sir Norman Foster, (quando fu costruito nel 2008, con la sua forma che ricorda vagamente un dragone disteso su Pechino, era l’aeroporto più grande del mondo) ho trovato ad accogliermi una bella giornata di fine autunno, e un cielo inaspettatamente celeste. Mi sono sentito sollevato. Almeno per il momento i terribili racconti di cieli grigi, polverosi e inquinati sembravano solo una leggenda metropolitana. Non so se avrei avuto lo stesso ottimismo se invece che a settembre fossi atterrato a dicembre o a gennaio…
Una volta riuscito a comprare una scheda telefonica cinese (non senza difficoltà) sono andato in cerca di un taxi. L’unico modo per comunicare con un tassista in Cina, a meno di non sapere il cinese, è quello di avere un foglio con scritto l’indirizzo da raggiungere in caratteri cinesi. Per fortuna, l’avevo. Alla fine la parte più difficile sarebbe stata arrivare dall’aeroporto a casa, pensavo, poi, una volta raggiunti i miei colleghi avrei potuto almeno parlare con qualcuno, poco importa se in italiano o in inglese, qualunque lingua purchè fosse vagamente comprensibile.
La prima cosa che ricordo, dopo la mezz’ora di taxi attraversando tutta la città, una città infinita e difficilmente comprensibile al primo sguardo, è il posto in cui mi ha lasciato il tassista (andingmen nei), una strada a quattro corsie, con piste ciclabili larghe come le corsie per le auto. Polvere, un brulichio di gente disordinata e confusa, su biciclette e motorini di tutte le forme possibili e immaginabili e macchine, tante macchine. Sole, il cielo limpido e dappertutto appese lanterne rosse. Erano i giorni della festa di metà autunno, la festa della Luna.
La festa della Luna è una delle feste più importanti in Cina. Le città si riempiono di lanterne rosse appese ovunque (e vi assicuro che non potrebbe esserci niente di meglio come accoglienza appena arrivati a Pechino che trovarla piena di lanterne rosse) e si mangiano dei “dolci” tipici, piccoli dolcetti a forma di disco lunare: le mooncakes.
Ho scritto “dolci” doverosamente virgolettato perchè le mooncakes, pur avendo la forma di un pasticcino sono un pò lontane dalla nostra idea di dolce. Nella migliore delle ipotesi sono ripiene di una pasta di fagioli dolci o di semi di loto. Purtroppo nella cucina cinese, estremamente ricca su tutti gli altri fronti, i dolci hanno una parte veramente marginale. Non esiste in Cina, per quello che ho avuto modo di osservare finora, una vera e propria cultura pasticcera o dolciaria.
La leggenda racconta di due innamorati (Houyi e Chang’e), provetto arciere lui e bellissima fanciulla lei. La bellissima fanciulla cadendo vittima della curiosità inghiotte la pillola dell’immortalità che l’imperatore aveva donato a Houyi. Da allora Chang’e è volata sulla luna e lì è bloccata per sempre, essendo terminato l’effetto della pillola. Nel frattempo Houyi si è costruito una casa nel sole. La leggenda vuole che lui possa raggiungerla sulla luna una sola volta l’anno, proprio durante la festa di metà autunno e in quella notte la luna sia piena e risplenda più luminosa di sempre.
Dettaglio da non omettere nella storia è la presenza di un coniglio bianco che vive sulla luna, cerca tuttora di ottenere un’altra pillola pestando delle erbe per far tornare Chang’e sulla terra. Pillole e conigli bianchi sembrano essere legati da un rapporto particolare in più di una storia, così come le belle fanciulle, la curiosità e le nefaste conseguenze. Pechino, nel bel mezzo della festa della luna, era così: ricolma di lanterne rosse e con le pubblicità nella metropolitana di lussuose e invitanti mooncakes da regalare ad amici, amati e parenti.
Ignaro del perchè di tutto questo movimento, fermo ad un angolo tra andingmen e una stradina stretta e sporca che si infila tra due file di edifici aspetto che Jingjing, una collega con cui avevo lavorato a Firenze, venga a prelevarmi, avendo come unica alternativa quella di lasciarmi morire di fame in quel punto esatto per impossibilità di comunicare con chiunque.
Jingjing invece è arrivata, mi ha scortato a casa, che non era poi così lontana, e insieme siamo andati in studio. Arrivo in studio per l’ora di pranzo e mi aspetta un pranzo di benvenuto con tutti i colleghi. Seduto a tavola, per la prima volta da ore posso, per un attimo, tirare un sospiro di sollievo. Dopo tanta strada ecco che improvvisamente di nuovo ho un punto fisso, un punto di partenza per una nuova esperienza. Per la prima volta mi guardo intorno e mi accorgo che i miei colleghi hanno quasi tutti gli occhi a mandorla.
Ed ecco che io, che vengo da una città che ha un rapporto così complesso con le minoranze etniche, mi trovo ad essere passato dall’altra parte, minoranza dagli occhi grandi in mezzo a queste persone dall’aria così enigmatica. Il mio primo pranzo “veramente” cinese.
L’altra cosa che ricordo distintamente è, la mattina dopo, percorrere il ponte di Andingmen per andare a prendere la metropolitana. Ricordo la sensazione di smarrimento, i palazzi di stampo sovietico-stalinista che mi guardavano minacciosi intorno, il fiume di macchine sotto di me. Le lanterne rosse, enormi, che sventolavano indolenti. Quel ponte, con le sue lanterne, per giorni sarebbe rimasto l’unico punto di riferimento che avrei avuto a Pechino.