BERLINO. Sole. Finalmente sole. Un caldo e brillante sole giallo, su uno sfondo azzurro chiaro e interrotto solo da qualche nuvola. Dopo l’infinito inverno grigio, con sole 26 ore di sole a gennaio e il marzo più freddo degli ultimi 130 anni (non è un numero a caso: è vero!), poter uscire e godermi un po’ di calore naturale sul viso è un toccasana che ha un effetto terapeutico per lo spirito, più che per il corpo.
E dire che la prima domanda che mi fecero i colleghi tedeschi il primo giorno di lavoro fu proprio “Ma perché hai lasciato il sole italiano per venire al freddo di Berlino?”. In quel caso, però, avevo una risposta più che pronta, non perché l’avessi preparata, ma perché era il reale motivo per cui son qui, in Germania: “Se parliamo dal punto di visto meteorologico, hai ragione a chiedermelo. Ma considerando quello economico…”.
Sono arrivato a Berlino il 27 agosto del 2012. Non sono mai stato uno di quelli convinti di voler partire. Ho sempre pensato che le persone hanno bisogno di un posto in cui piantare radici, in cui costruire e vivere una comunità e continuo a crederlo tutt’oggi.
Molti dei miei compagni di università, studenti di biotecnologie molecolari a Bologna, invece hanno sempre pensato e desiderato di partire: già da tempo aspiravano a sperimentare (e forse questa è la parola più giusta) la vita accademica al di fuori dall’Italia. Un desiderio che diventa più una necessità, quando, dopo aver vissuto l’ambiente universitario per più di un anno, durante la preparazione della tesi, comprendi quali sono le reali possibilità di poter accedere ad un dottorato o ad un posto di ricercatore.
Mi sono laureato in biotecnologie all’Università di Bologna nel marzo 2012. I due mesi successivi li ho impiegati organizzando, per conto della FIL, dei laboratori scientifici didattici per circa 10 scuole pratesi, con più di 1000 studenti partecipanti e altri 1000 che hanno assistito alle dimostrazioni pubbliche durante la Fiera del Lavoro. E’ stato emozionante. Poter trasmettere le proprie conoscenze a menti fresche, vivaci e curiose; vedere che in 5 anni di studio avevo effettivamente imparato tanto e che adesso ero in grado di insegnarlo; vedere gli occhi dei ragazzi che si illuminavano quando osservavano come il succo di cavolo cambiasse colore a seconda dell’acidità o quando un fluido diventava immediatamente solido. La scienza è sempre considerata una cosa lontana e complessa, quando la regola per capire i fenomeni naturali è la solita per capire tutti i fenomeni: essere curiosi. Ovviamente, è più facile se la curiosità viene stimolata…e premiata.
Alla fine dell’esperienza, dovevo cominciare a pensare al mio futuro. Avevo già deciso di fare un dottorato, anche considerando gli apprezzamenti al mio lavoro da parte del mio tutor bolognese, che mi hanno confermato nella scelta e incoraggiato a prendere questa strada. La cosa più immediata sarebbe stata quella di chiedere se c’era possibilità di farlo nello stesso laboratorio dove avevo fatto la tesi. Presi così un appuntamento per parlare col mio professore. Parallelamente, però, quasi per gioco, mandai il CV ad un laboratorio tedesco, facente parte di un network di ricerca europeo, che aveva pubblicato un bando per 11 posizioni di dottorato.
Quando arrivai dal mio professore, avevo già ricevuto una mail di risposta dalla Germania, che suonava più o meno così:
Caro sig. Del Campo, ritengo il tuo curriculum molto interessante. Direi di procedere con un colloquio via skype, da tenersi entro 5 giorni. Venerdì prossimo va bene?
Arrivato a Bologna, quello che mi aspettavo dalla chiacchierata col mio prof. era una qualche garanzia che, se avessi scelto di fare il dottorato da loro, avrei avuto qualche probabilità di accedere alla borsa di studio. Dalla chiacchierata questo non uscì e solo ora mi chiedo se il professore non disse niente perché non poteva darmi certezze o se fosse perché voleva che provassi il dottorato fuori. Fattostà che, a quel punto, la mia unica (in quel momento) possibilità di dottorato in Italia non c’era più.
Il venerdì arrivò il colloquio via skype.Non avevo mai sostenuto una conversazione in inglese, figuratevi sostenere un colloquio! La professoressa è giovanissima, sulla quarantina, e ha un approccio veramente amichevole. Mi chiede che tipo di studi ho fatto, com’è l’Università di Bologna, se ho mai usato alcune tecniche e poi mi spiega l’idea del progetto. Alla fine mi dice che è andata bene e che farò un secondo colloquio con un suo collega italiano. Passato anche il secondo, neanche 2 giorni e mi arriva la mail in cui la professoressa mi offre la posizione di dottorato. Che, dopo un paio di giorni di riflessioni, accetto.
Ho pensato spesso a questa storia. Ho pensato a come il mio desiderio di stare in Italia si sia improvvisamente tramutato in una voglia di partire quando ho ricevuto la proposta. Anzi, quando ho ricevuto l’invito al colloquio di lavoro.
Non è stata la possibilità di lavorare, a farmi cambiare idea. E’ stato il fatto di sentirmi valorizzato.
Una professoressa che non mi conosceva ha letto il CV e la mia lettera di presentazione, mi ha conosciuto per un’ora in una chiacchierata via skype e poi si è fidata del giudizio di un suo collega per prendere la decisione finale. Ha scelto in base ha quello che ho scritto e che ho detto. Ha scelto in base ai miei voti, ai miei studi, all’entusiasmo che ho provato a trasmettere durante il colloquio. Ha scelto in base alle mie competenze e alla mia voglia di fare. In una sola parola, ha scelto in base al merito. E quello che mi ha veramente fatto felice è che io non sapevo se ero veramente “meritevole” e, perciò, quando quell’offerta mi è arrivata, è stato un altro incoraggiamento a fare quella scelta. A quel punto, anche se dentro continuavo a sentirmi inadatto alla strada, decidere di partire è stato quasi naturale.
Ho lasciato l’Italia con gioia e dolore. La gioia dell’avventura, certo, e di tutte le possibilità che sarebbero arrivate. Il dolore di lasciare la famiglia e gli amici e, in parte, di sentirmi costretto a farlo, come un tempo fece mio nonno, proprio nella stessa Germania.
Ma c’era anche un altro dolore. Avevo sempre creduto di poter fare qualcosa per la mia città e andarmene per me è stata un po’ una sconfitta. E’ stato lasciare i miei compagni di viaggio e dirgli “Ragazzi, pensateci voi a Prato, che io adesso c’ho da fare”. Era questo uno dei motivi per cui non volevo partire: non volevo darla vinta a tutti quelli che dicevano che in Italia non c’è speranza e si deve sempre scappare. Continuo a credere che il giorno che la mia città saprà valorizzare i suoi giovani talenti, tornerà ad essere grande, come lo è stata in passato. E spero di poter tornare a contribuire a farla grande.
Sono arrivato a Berlino il 27 agosto 2012. E da qui è partita la mia avventura di dottorando, immigrato in Germania per lavorare, senza sapere una parola di tedesco, ma con la voglia di scoprire questo paese che, a detta di molti, funziona bene.