La città di Prato ha avuto un ruolo centrale nella vita artistica e politica di Massimo Castri. Lui nato a Cortona e stabilito a Firenze, inizi teatrali con la Comunità dell’Emilia Romagna, affermatosi a Brescia come regista esplosivo (e agli inizi quasi “provocatorio”), poi direttore dello stabile di Torino e nel 2004 direttore della Biennale Teatro, ha avuto a Prato una esperienza fondamentale. Ha creato lì, quasi dal nulla, un teatro pubblico che non c’era, lo Stabile della Toscana, che fino a quel momento inspiegabilmente, e nonostante i fermenti che attraversavano la regione, non se ne era mai dotata. Il Metastasio era sempre stato un centro propulsivo per lo spettatore non solo locale: dal magistrale Laboratorio di Luca Ronconi negli anni settanta (che creò per l’occasione un modello di nuovo spazio, il Fabbricone) alle presenze esclusive del Mahabharatha di Peter Brook come di altri capolavori internazionali in transito privilegiato. Ma il Metastasio restava pur sempre un teatro comunale, con tutti i limiti e i condizionamenti (e le ristrettezze) del caso.
Non poteva essere che Castri a operare quel “miracolo” cui servivano anche grande scienza organizzativa e legislativa, il respiro e la tensione a un’arte che fosse davvero grande, conoscenza antropologica del territorio, e soprattutto una così alta maestria registica, che in quella struttura potesse esercitarsi e prender corpo, creare pubblico nuovo e nuove generazioni di teatranti.
In quegli anni novanta Castri ha mostrato di possedere insieme la sapienza di Giorgio Strehler e quella di Paolo Grassi, quando i due avevano fondato nel 1947 il primo stabile italiano, il Piccolo di Milano. Del resto Massimo Castri da sempre aveva privilegiato il teatro pubblico rispetto a quello “privato”: per motivi culturali e artistici, politici e “funzionali”. Poi per necessità e opportunità di lavoro, non aveva rifiutato di lavorare per impresari e compagnie, come quella che per capocomica aveva la grande Valeria Moriconi, sua amica da sempre. E che con lui raggiunse risultati strepitosi. Come, per fare un altro esempio, Ugo Pagliai: con il pirandelliano Piacere dell’onestà fatto da Castri, fu scoperto come attore di tutto rispetto, dopo esser stato una semplice star di gialli televisivi.
E proprio quando costruiva una ipotesi inedita di teatro stabile per la Toscana, gli toccava stabilire contatti e cercare risorse mentre frugava e reinterpretava bilanci e dipendenze, deficit e preventivi produttivi.
Un lavoro ciclopico che lui, convinto della giustezza e della necessità dell’operazione, si accollava di buon grado, biascicando sigarette e caramelle, avanti e indietro per la città in nome della quale portava avanti la scommessa.
Si consultava certo, con amici e specialisti, aggrottando le sue famose sopracciglia, lanciando qualche toscanissima bestemmia, ma anche sparando battute micidiali e irresistibili. Perché dietro la scorza dell’artista ombroso, dietro la difesa contro il vaniloquio generale da cui temeva sempre di venir sommerso, dietro il rigore che rendeva estenuanti e sublimi le prove con lui di uno spettacolo, Castri era spesso acutamente simpatico, sempre irriverente verso la cultura costituita, e sensibile ad ogni umanità. Fino alla tenerezza, che a volte gli scappava di mostrare anche in pubblico, oltre a quella che suscitava nello spettatore con i suoi magici “racconti” teatrali, costruzioni sapienti sempre in equilibrio tra raziocinio ed emozione.
Quelli che avrebbe voluto realizzare anche a Torino, per il cui stabile lasciò la città toscana. Tuffandosi di getto nei problemi di quel teatro, e appena li conobbe fu “sbranato” dai politici che lo governavano, una tenaglia micidiale di sinistra e destra che lo costrinse alla seconda stagione alle dimissioni. Una storia incredibile e paradigmatica, che chissà se Castri ha mai pensato di scrivere, lui che scrittore era, forse l’unico tra i registi, tanto da lasciare ben tre libri (su Piscator, Pirandello, Ibsen) che sono tuttora il punto avanzato della riflessione su quegli autori.
A Prato del resto ha lasciato nel ricordo dello spettatore immagini indimenticabili: basti pensare al cimitero nuziale e fiorito dell’Orgia di Pasolini; o alla sabbia del Fabbricone ove Annamaria Guarnieri/Ifigenia beffa divinità e potere scappandosene dalla prigionia col simulacro della superstizione. Immagini fantastiche, forse irripetibili. Ma non meno emozionanti, per chi scrive, dell’affetto che lungo gli anni, proprio per l’antica frequentazione con il “burbero” Castri, gli tributa ogni volta l’esercente del bar di fronte al teatro. La simpatia reverenziale accumulata in quegli anni rispetto a Massimo e alla sua molto personale alimentazione, è diventato un vincolo ferreo d’amicizia che si perpetua nel tempo. Senza rimpianti, ma sempre riconoscendo assieme la straordinarietà dell’impresa di Castri a Prato.
Gianfranco Capitta
Gianfranco Capitta, giornalista e critico teatrale, dirige le pagine culturali del Manifesto (Leggi l’editoriale “L’ultimo colpo basso“). Pratosfera lo ringrazia di cuore per il contributo che non ha esitato a fornire a questo progetto editoriale.